Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 06 novembre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Ventunesima
Parte)
42. Elisabetta allo specchio concepisce la riforma
anglicana a propria immagine e usa il potere della candela. Ritroviamo
Elisabetta allo specchio, intenta a stendere con cura sul viso la sua famosa
crema bianca, così densa da assomigliare più a una pasta cerosa che alle creme
di latte in uso all’epoca. La regina si trucca e pensa alle prossime mosse da
compiere, mentre fuori infuriano gli scontri tra riformatori protestanti, che vogliono
imporre alla maggioranza cattolica l’abbandono di rito e dottrina romana, e
varie fazioni di conservatori, oltre a un’organizzata rappresentanza di seguaci
inglesi di Calvino, che dal 1564 – l’anno in cui muore Michelangelo e nascono Galileo
e Shakespeare – sono chiamati puritani, perché intendono purificare il
protestantesimo inglese da tutte le forme non esplicitamente indicate nel Nuovo
Testamento.
La sovrana si è resa conto che col passare degli anni
la sua pelle comincia a invecchiare e il latteo candore del suo viso, celebrato
dai poeti, è svanito; tuttavia, non vuole rinunciare all’arma della seduzione dei
capi delle fazioni, prima di essere costretta a deliberare, fingendo di
deplorarle, torture e pene di morte per disobbedienti e facinorosi. A quel
tempo non esisteva la moderna industria cosmetica, e certamente per schiarire
il volto e renderlo come da giovane non bastavano le antiche ricette di bellezza
delle erboriste e delle dame di palazzo: si trattava di creare un prodotto
nuovo. La scienza del colore era allora posseduta dai pittori, che conoscevano
e si tramandavano come segreto di bottega le proprietà delle materie coloranti,
spesso attraverso racconti esemplari o veri e propri miti, che sopperivano all’ignoranza
della natura chimica dei composti, a volte con sorprendente efficacia.
Bisognava realizzare un impasto che non evaporasse o fosse
assorbito facilmente, avesse capacità coprente ma anche un corpo leggermente
trasparente e non la consistenza della creta usata degli attori di masque
per modificarsi il viso. Soprattutto, doveva contenere un colorante bianco. I
grandi maestri, come i manoscritti sui colori, erano italiani. Esistevano due categorie
di bianchi: quelli riconducibili alla mitica ricetta del “Bianco del Vecchio
della Montagna”, a base di zinco, e le cerusse o biacche, come quella impiegata
da Raffaello, a base di piombo. Il candore splendente delle biacche era di gran
lunga superiore al bianco smorto dei composti a base di zinco, ma molti pittori
le evitavano ed evitavano anche i gialli di cromo, empiricamente perché la
mescolanza di biacche e cromati alterava la tinta quando asciutta[1], ma anche
perché nelle storie antiche si leggeva di proprietà malefiche di questi colori,
come dei composti gialli dell’arsenico, per ovvi motivi. Per evitare ogni
rischio, molti pittori usavano il bianco di zinco e un giallo ottimo nelle
mescolanze e privo di tossicità, che si produceva a Napoli e per questo detto “giallo
di Napoli”, ma, essendo preferito e raccomandato da Leonardo da Vinci, era noto
in Europa anche come giallorino di Leonardo[2]. La
crema bianca della regina Elisabetta conteneva biacca, e dunque composti del piombo,
per cui alcuni storici hanno addirittura ipotizzato che la sua morte sia avvenuta
per intossicazione da piombo causata dall’uso di quella crema.
Ma, intanto, la regina allo specchio ha quasi
completato la copertura dell’ovale del viso, mentre continua a pensare a quali
possano essere le prime mosse da compiere in quella contingenza di piazza.
Infatti, sa quanto sia difficile sedare e gestire gli scontri tra fazioni,
conservando il consenso necessario ad attuare il progetto che ha ben chiaro in
mente: fondare una nuova confessione per rendersi indipendente dal Papa
e allo stesso tempo non rischiare di consegnarsi ai nuovi potentati
economico-finanziari luterani dei paesi di cultura germanica, desiderosi di
colonizzare le isole britanniche. Sa che le prime mosse sono importanti, perché
sarà una lunga partita a scacchi con il clero, tutto cattolico, e con i
magistrati, anche loro in massima parte di osservanza apostolica romana; senza
contare la resistenza che potrebbero opporle i suoi collaboratori protestanti
più rigorosi.
Elisabetta ha finito il trucco e, mentre ancelle e
dame l’aiutano a comporre e completare la sua immagine pubblica, incontra di
nuovo il suo viso allo specchio: è pronta e può sorridere a sé stessa, perché ora
sa cosa fare. Ecco l’idea geniale: non cadrà nella trappola di schierarsi dalla
parte dei protestanti o da quella dei cattolici, interverrà attaccando a sua
volta John Knox, un capo puritano che oggi definiremmo un irriducibile
maschilista, il quale aveva pubblicamente dichiarato il suo disprezzo per le
donne regine, e chiederà a tutto il suo popolo di mobilitarsi contro questa
minoranza oltraggiosa, anche a nome delle altre donne regnanti.
Un colpo da fuoriclasse della politica, efficace e
riuscito, ma è solo una prima piccola mossa che sarà presto dimenticata. Il
secondo passo compiuto dalla sovrana è la sensibilizzazione alla necessità
di cambiamento, persuadendo i protestanti che il loro proselitismo era
stato efficace fin quando erano stati visti come portatori di una spiritualità
nuova, e i cattolici che, per battere l’attivismo dei protestanti, fosse
necessario rifondare lo stile cristiano della propria vita secondo un impegno
nuovo nella promozione della fratellanza e dell’unione nell’amore reciproco. Il
terzo passo faceva leva sull’orgoglio nazionale: le cose nel mondo
cristiano non vanno più bene in materia religiosa e a noi Inglesi, che sappiamo
contemperare la libertà individuale con la partecipazione collettiva, spetta l’alto
compito storico di edificare una nuova chiesa nazionale nel rispetto della
tradizione evangelica per fare da capofila e traino agli altri popoli, come
avevano fatto i primi cristiani fondando la Chiesa di Roma.
Per la realizzazione del progetto della nuova Chiesa Anglicana,
Elisabetta parte dall’analisi della realtà religiosa nella società inglese e,
soprattutto, dall’esame delle coscienze dei suoi collaboratori e di tutti gli
intellettuali carismatici riconosciuti dai sovrani europei e con capacità di influenza
sui circoli culturali e sulle masse. Ma, prima di parlare di questa analisi che
oggi descriveremmo come inchiesta sociologica di massa e studio della psicologia
religiosa di un campione dell’élite culturale, è lecito porsi le domande:
Elisabetta era credente? Qual era il suo modo intimo e personale di concepire
la dimensione spirituale?
Per entrambe le domande, le risposte che emergono dai
documenti suggeriscono una distinzione in due periodi della vita della sovrana:
l’età precoce della formazione e l’età adulta del regno.
A seguito della perdita della madre Anna Bolena, decapitata
dopo una condanna per incesto col fratello, numerosi adulteri, stregoneria e alto
tradimento, la piccola Elisabetta crebbe fino all’età di sette anni ad Hatfield
con la sorellastra Maria in un ambiente di profonda spiritualità cristiana cattolica,
apparendo salda nella fede, con la semplice spontaneità affettiva dei bambini.
Probabilmente questa esperienza precoce l’aiutò
quando, ascesa al trono la sorellastra, le fu ingiunta la confessione cattolica.
Ammessa a corte dopo il matrimonio del padre Enrico VIII con Anna di Clèves,
protestante ma di madre cattolica, stabilì un buon legame affettivo con la
matrigna e, affidata al precettore Roger Ascham, fu istruita ai principi del
protestantesimo e divenne profonda nella conoscenza teologica, coltivando l’interiorità
spirituale come responsabilità della creatura nei confronti del Creatore, concepito
quale Ente supremo costantemente presente alla coscienza morale dell’individuo.
Conservò a lungo l’abitudine di svolgere un compito quotidiano di teologia; con
tale consuetudine, deve averne eseguiti più di qualsiasi seminarista dei nostri
giorni. Possiamo dunque desumere che da ragazza Elisabetta fosse sinceramente credente.
Tutt’altra impressione e altri giudizi suscita da
adulta la regina in coloro che hanno modo di incontrarla, frequentarla e
conoscerla, al punto che, raccogliendo tutte le principali testimonianze dei
contemporanei, lo storico John Richard Green a un paio di secoli di distanza
così si esprime: “Nessuna donna mai visse che fosse così totalmente priva del
sentimento religioso”[3]; e
gli fa eco James Anthony Froude: “Elisabetta era priva di precise convinzioni
sentimentali… Elisabetta, per la quale il credo protestante era tanto poco vero
quanto quello cattolico ebbe disprezzo per il dogmatismo religioso, con un
atteggiamento tipico della tolleranza anglicana”[4].
Si legge anche che, quando amoreggiava per fini
politici con il duca di Alençon erede al trono di Francia, con orrende
imprecazioni che scandalizzavano gli astanti, chiamava a testimone l’Altissimo,
chiedendogli di annientarla se non avesse mantenuto la promessa di sposare il giovane
francese e, un momento dopo, in privato, si faceva beffe delle pretese alla sua
mano del duca innamorato. Dichiarò a un ambasciatore che le differenze tra le
fedi cristiane in lotta erano “una pura bagatella”, dal che questi dedusse che
la regina fosse sostanzialmente atea.
Personalmente, ritengo che non sia possibile dedurre
dai suoi scritti, dai suoi comportamenti e da tutte le testimonianze dell’epoca,
indizi certi e univoci sulla realtà delle sue convinzioni intime e profonde.
Non credo di poter fare emergere, come mi è sembrato di essere riuscito a fare
per Leonardo e Galileo, aspetti di un nucleo autentico di personalità, dentro
la forma delle parole e degli atti cristallizzati dalla storia nel personaggio
costruito dai biografi. Forse perché la finzione, la doppiezza, l’ambiguità, la
mancanza di sincerità, costituiscono l’unica cosa vera e certa del suo modo di
essere.
Ad esempio, quanto sono vere e sentite le parole del
discorso da lei scritto e pronunciato il 20 novembre 1558 in occasione della
sua incoronazione davanti ai ministri, alla corte, ai rappresentati del popolo e
ai delegati di tutto il mondo? A voi il giudizio:
“Miei Lord, le leggi di natura mi spingono al
rimpianto per mia sorella; il fardello che ricade su di me, mi sgomenta; eppure,
considerando che io sono una creatura di Dio tenuta ad obbedire all’ordine Suo,
ad esso mi sottometterò; dal fondo del cuore desiderando di poter essere assistita
dalla sua grazia per adempiere sulla terra la Sua volontà nel compito ora
affidatomi. E poiché materialmente altro non sono se non un corpo, ma per il
Suo consenso un corpo che governa la politica, così desidero che voi tutti,
signori, principalmente voi della nobiltà, ciascuno secondo il grado e il
potere, mi siate di aiuto affinché, io con il mio governo e voi con il vostro
servizio, possiamo ben rendere conto dell’operato nostro all’Onnipotente,
lasciando ai nostri posteri in terra una qualche consolazione”[5].
Torniamo dunque all’indagine condotta dalla regina
sulle convinzioni religiose, filosofiche e morali dei suoi collaboratori, dei
ministri, della corte, dei nobili e del popolo. Il primo parere di cui ha
tenuto conto è stato quello del suo precettore Roger Ascham che, nel suo Scholemaster,
lamenta la mancanza di profondità spirituale dei suoi connazionali inclini,
nell’acquisire la cultura italiana, a importare frivolezze e licenziosità
piuttosto che l’abitudine a meditare opere di filosofia morale e testi sacri.
Scrive, infatti, che il proverbio italiano che celia gli inglesi italianizzati “non
si riferiva alla loro vanità, quanto alle loro impudiche opinioni in fatto di
religione… Essi facevano conto più del De officiis di Cicerone che delle
Epistole di San Paolo, più d’una novella di Boccaccio che d’una storia
della Bibbia. Quindi, hanno in conto di favole i sacri misteri della religione
cristiana. Fanno che Cristo e il suo Vangelo servano soltanto a fini civili;
quindi né l’una né l’altra confessione (protestantesimo o cattolicesimo) giunge
a loro importuna. A seconda del momento le sosterranno apertamente, salvo a
farsene beffe in privato… Il cielo che essi desiderano è soltanto il loro
piacere personale e il loro vantaggio privato; così apertamente dichiarando di
quale scuola essi siano: epicurei quanto alla vita e atheoi quanto alla
dottrina”[6].
Se questo ritratto degli Inglesi di recente
acculturazione non include la regina, come a me sembra, sicuramente indica un
terreno di coscienza sgombro da radicate convinzioni morali e quindi
favorevole, come una tabula rasa, alla costruzione della nuova concezione
anglicana.
Elisabetta ascolta il consigliere preferito, Cecil, il
quale lamenta che “coloro che irridono alla religione, epicurei e atei, sono
dovunque”[7]; poi
John Strype, secondo il quale “molti erano del tutto lontani dalla comunione
ecclesiale, e non andavano più ad ascoltare il servizio divino”[8], e
John Lyly il quale riteneva che “mai vi fossero state tali sette fra i pagani…
tale miscredenza fra i fedeli, quale oggi esiste fra gli studiosi”[9]. Viene
a conoscenza dei numerosi libri scritti da teologi e altri pensatori contro l’ateismo.
Anche se, a questo proposito, è opportuno fare una precisazione: per i teologi
e i filosofi inglesi di quegli anni la parola “ateo” non designava colui che
non crede nell’esistenza di Dio, ma un credente, come quelli di religione
ebraica o islamica, che non riconosce la divinità di Gesù Cristo.
Sappiamo che la regina conosceva drammaturghi come
Green, Kyd e Marlowe e la loro fama di atei – a quanto pare in senso proprio – e
conosceva il significato di questi due oscuri versi di Pene d’amor perdute
di Shakespeare:
O paradosso!
Nero il segno dell’Inferno,
il colore
della cella e la scuola della notte.
La “scuola della notte” era la casa di campagna di
Walter Raleigh che ospitava i convegni di astronomia di Thomas Harriot, cui prendevano
parte Lawrence Keymis e, sembra, anche Marlowe e Chapman. Da una cella nera si
facevano osservazioni del cielo secondo la scienza di Galileo Galilei, e a
volte si affrontavano anche argomenti di chimica, geografia, filosofia e
teologia. Harriot, come sappiamo da Anthony Wood, aveva idee molto personali
sulle Sacre Scritture, svalutava il racconto allegorico della Creazione e
scrisse una Philosophical Theology in cui si sbarazzava del Vecchio
Testamento; infine, Wood precisa che credeva in Dio, ma non nella divinità di
Gesù Cristo[10].
Il gesuita Robert Parsons chiama quella di Raleigh e Harriot “una scuola di
ateismo dove ci si faceva beffe di Mosé e del nostro Salvatore”[11].
L’inchiesta si conclude qui: Elisabetta è in ottimi rapporti
con Walter Raleigh che, come abbiamo visto, è uno dei suoi adulatori di
professione, e lo protegge quando viene accusato di ateismo e portato a
processo, consentendogli di scagionarsi con una dichiarazione scritta, da lui
inclusa nella prefazione del suo libro History of the World, e
consistente in una digressione sulla fede in Dio[12]. La
regina ha deciso che questa mancanza di profonde radici confessionali, di passione
religiosa, di certezza nella sostanza della verità di Dio quale dimensione
profonda di ciascuno, costituiscono il punto di partenza migliore per costruire
un culto completamente orientato dalla sua valenza politica.
Elisabetta non sembra temere il rischio di strutturare
una religione senza Dio perché, anche se a parole lo nega, al centro del
terreno, temporale e materiale apparato anglicano ha posto sé stessa. Il piano,
anche se rimarrà imperfetto e incompiuto, prevede una dimensione simbolica
del credo che non rimanda, come vuol fare apparire, a una sostanza di senso
assoluto e trascendente, ma è prevalentemente autoreferenziale, appiattendosi
sulla struttura della dimensione significante.
La differenza con un credo che si basa sulla sostanza
della verità, come la fede del martire, è abissale: la fede fondata
sull’assoluta verità di Dio non è mai posta in questione in nessuna vicenda
umana, perché Dio esiste a prescindere da ciò che pensano e fanno gli uomini; un
apparato politico-religioso che si statuisce sulle forme che lo caratterizzano
e lo identificano, dipende strettamente da coloro che lo sostengono e lo
riconoscono, ed esiste se e quando vi sono persone che gli danno
vita. Per questa “ragione di vita o di morte” può facilmente diventare violento
e criminale con i dissenzienti e con chi si rifiuta di riconoscerlo.
Ma, torniamo alla riedificazione anglicana. La regina
con un nuovo Atto di Uniformità elegge un’edizione riveduta e corretta del Book
of Common Prayer di Cranmer a norma liturgica inglese, abolendo ogni altro
libro religioso.
In realtà a Elisabetta piacevano molti aspetti del
cristianesimo cattolico: amava i cerimoniali della Chiesa di Roma, approvava
senza riserve il celibato dei sacerdoti, era attratta dalla santa messa con la
celebrazione eucaristica cancellata dai protestanti e “avrebbe fatto pace con
la Chiesa se non avesse richiesto di sottomettersi al papato”[13]. Il
padre, Enrico VIII, l’aveva allevata a un protestantesimo che era in realtà un
cattolicesimo senza il Papa, e questo fu sostanzialmente il suo progetto.
La messa fu abolita, ma il clero doveva vestire paramenti
bianchi come quelli cattolici e usare il piviale per amministrare l’Eucaristia.
Da sottolineare che a quel tempo tutta la messa cattolica era focalizzata sulla
celebrazione eucaristica, senza la liturgia della parola attuale, riservata ad
altre circostanze, mentre il servizio dei protestanti non ammetteva la
comunione. Elisabetta volle che gli anglicani ricevessero la comunione col
Corpo e il Sangue di Cristo nelle due specie del pane e del vino, rimanendo in
ginocchio durante la cerimonia. L’invocazione dei santi fu sostituita da quella
degli eroi protestanti. La cresima e la consacrazione rimasero come riti anche se
non considerati sacramenti istituiti dal Signore. La “confessione a orecchio”,
ossia rivolta al sacerdote, che non esiste fra i protestanti, non fu abolita,
ma resa facoltativa e consigliata in punto di morte. La maggior parte delle
preghiere di Santa Romana Chiesa fu conservata, ma in molti casi furono
tradotte in inglese, così da apparire nuove e anglicane[14].
Elisabetta sperava che la liturgia semi-cattolica
avrebbe soddisfatto la silenziosa maggioranza cattolica, mentre l’abolizione ufficiale
della messa avrebbe placato gli attivisti protestanti.
In questa riforma anglicana la regina mostrò una
notevole conoscenza tecnica delle procedure liturgiche e dei codici canonici.
La verità è che Elisabetta ha studiato più la
religione che la parola di Dio[15];
e più che dalla Verità del Logos è affascinata dal potere posto in gioco
dalla gestione simbolica dei rituali religiosi e dalla possibilità di usarli
strumentalmente a fini di governo e dominio del popolo e delle gerarchie
sociali rappresentate in parlamento. I monarchi hanno da sempre impiegato quella
rappresentazione materiale del potere simbolico che va dal costruirsi monumentali
palazzi, dalle dimensioni in grado di intimidire il popolo minuto e consentire
di levare la loro voce come dei dall’Olimpo, fino all’apparire in pubblico con
tutti i segni esclusivi e distintivi di un’identità superiore e inimitabile. Ma,
in genere, l’uso di queste forme non andava oltre le convenzioni tradizionali e
cerimoniali, Elisabetta invece stava affinando i modi per sfruttare tutte le
risorse dei significanti simbolici per scopi di governo, conquista, crescita
economica, espansione commerciale, alleanze politiche, soluzione di controversie,
esercizio di egemonia.
La regina studia e considera i modi per attrarre
e asservire nati in seno alla Chiesa, anche quando si tratta di aberrazioni,
purché si siano rivelate efficaci, cercando di derivarne un modello da riadattare:
dalla compravendita di indulgenze, che fu causa precipitante della Riforma, al
ricatto morale esercitato dai protestanti per ottenere finanziamento e supporto.
La figlia di Anna Bolena comprende che l’efficacia del potere simbolico
religioso si basa sul valore condiviso di verità, cui fa implicitamente
riferimento, e che la perdita del potere si ha quando appare che il presupposto
di verità sia stato tradito, come sembrò a Lutero.
A proposito del valore condiviso di verità,
Elisabetta aveva vissuto un’esperienza che l’aveva segnata profondamente. Nel
1536 un atto del parlamento aveva dichiarato nulle le nozze del padre Enrico VIII
con la madre Anna Bolena, dichiarandola figlia illegittima; nel 1544 un nuovo
atto parlamentare, pur non riconoscendola moralmente e legalmente figlia di una
coppia reale, aveva ammesso la possibilità della sua successione al trono dopo
il fratellastro Edoardo e la sorellastra Maria, secondo un’interpretazione
protestante del diritto di successione. Allora Elisabetta, durante il regno di
Edoardo, aderì al protestantesimo. Ma, ascesa al trono la sorellastra cattolica
Maria, che non avrebbe mai lasciato il trono a una protestante, Elisabetta ormai
ventenne ritornò cattolica.
E a questo punto si verifica la beffa: leggiamo, infatti,
che nel 1553 il parlamento di orientamento cattolico “aveva ribadito l’invalidità
delle nozze della madre e del padre, Stato e Chiesa erano d’accordo nel
considerarla bastarda, e la legge inglese, dimentica di Guglielmo il Conquistatore,
escludeva dalla successione al trono i bastardi. L’intero mondo cattolico – e l’Inghilterra
era per gran parte cattolica – credeva che legittima erede allo scettro d’Inghilterra
fosse la pronipote di Enrico VII, Maria Stuarda. Suggerirono a Elisabetta che
se si fosse rappacificata con la Chiesa, il Papa l’avrebbe assolta dalla
condizione di bastarda, riconoscendole il diritto a regnare”[16].
Non aveva però la certezza di questo e poi, come vedremo più avanti,
intervennero altre ragioni che la indussero a non percorrere questa via.
Una vicenda sconcertante, nella quale nessuna delle
due parti, né la futura regina né il parlamento, si preoccupano di cercare la
verità come sostanza: Elisabetta non si pone minimamente il problema di capire
quale confessione fosse più vicina alla Verità di Gesù Cristo, e cambia per puro
opportunismo; l’assise politica, dal canto suo, delibera esclusivamente in base
al formalismo giuridico confessionale, senza che nessun rappresentante ponga il
problema di coscienza spirituale – visto che il diritto a regnare era
considerato divino – relativo a come quel vincolo sacramentale si
rappresentasse agli occhi di Dio.
Ma torniamo alla regina che studia l’uso evocativo, suggestivo
e condizionante dei simboli.
Studiando la forza simbolica del potere religioso,
rappresentato agli occhi del mondo dal linguaggio universale e spesso sublime
della figurazione artistica, Elisabetta desume l’importanza di curare l’immagine
personale e della monarchia, quale idealità realizzata di bellezza, bontà e
saggezza al servizio del buon governo, occultando e disconoscendo tutto ciò che
si ritenga necessario ma potrebbe offuscarne la fama, come nel caso dell’ingaggio
segreto dei corsari[17].
Mi sembra opportuno, a questo punto, precisare che l’uso
strumentale del potere simbolico è esperito da Elisabetta come una pragmatica
nell’esercizio di un privilegio, senza accedere a un livello più elevato
di comprensione astratta e generale della dimensione simbolica, per il quale sarà
necessario attendere qualche secolo di riflessione filosofica, fino a ritrovarlo
in Nietzsche come qualità del suo Übermensch e approdo
personale di coscienza, del quale ho scritto in precedenza:
“Quella di Nietzsche è la certezza proterva di chi sa
che il gioco della vita è truccato a favore del croupier, ovvero di chi detiene
il banco del potere, ma sa anche come barare per farsi giustizia da solo e
vincere ogni posta, ad ogni mano, ad ogni puntata, giocando su tutti i tavoli con
la tracotanza beffarda e guascona di chi sa di essere protetto dal segreto che lo
accomuna ai detentori politici delle facoltà di governo: l’uso oculato e
scaltro dell’influenza suggestiva e dell’effetto evocativo dei valori
simbolici”[18].
La possibilità di usare questo effetto evocativo nel
registro del reale comporta, tuttavia, nella massima parte dei casi, l’essere
titolare riconosciuto della struttura simbolica in questione, altrimenti
la pretesa scoppia come una bolla di sapone e si dilegua senza lasciare traccia
nella realtà, se non l’eco di qualche risata. A parole soltanto la volontà soggettiva
può surrogare quella condivisione del senso che si rappresenta come oggettività[19]. E,
infatti, al riguardo aggiungevo: “Ma aver compreso il potere dei simboli non
vuol dire esserne il padrone, allora fingere di esserlo, andando oltre il mostrarne
il valore a chi, cieco e sordo, rimane schiavo dell’ordine simbolico, cos’altro
è se non una trovata, una boutade, trasformata in un’iperbole filosofica
tesa al punto da farsi prendere sul serio anche dai più esigenti?”[20].
Elisabetta agisce sempre da padrona riconosciuta dei
simboli, e la sua abilità consiste nell’impiegarli come elementi codificati nel
suo linguaggio abituale.
Nell’abile sviluppo delle sue trame impiegava
scaltre strategie con le quali riduceva spesso all’angolo il malcapitato, che si
trovava di fronte ad una alternativa obbligata, quel classico aut-aut
tertium non datur, che nel gioco d’intelletto per eccellenza importato un
secolo prima dall’Italia precedeva lo scacco matto: o accetti di stare al gioco
della mia commedia o sono costretta ad assegnarti il ruolo di vittima in una
mia tragedia.
La sovrana eccelle in un’abilità di gioco interpersonale
tutto psicologico, fatto di tecniche che le consentono l’uso di una perfetta
sintesi tra effetto evocativo dei simboli del potere e seduzione personale intesa
a suscitare sentimenti. Fin dall’approccio riesce a far passare una sua regola
del gioco: stabilisco io la distanza fra me e te, momento per momento; se ti
sta bene si può andare avanti, se no puoi andartene, perché una regina non ha
bisogno di nessuno, in quanto Iddio le ha dato i sudditi per i quali servirla è
un dovere. L’accettazione implicita di questa regola, come era accaduto per Filippo
II di Spagna, Carlo IX di Francia, per il duca di Alençon, per
Carlo d’Austria, per il re di Danimarca, per il fratello del re di Svezia e
tanti altri, era già un inconsapevole capitolare, rinunciando al ruolo
paritario di soggetto e parte in rapporti rappresentati socialmente
come trattative, contrattazioni, convenzioni o accordi.
La forma seduttiva, annunciata fin dagli esordi con
segni di ammiccamento verso l’interlocutore, che potevano alludere a un suo
desiderio inibito da una condizione di impossibilità che le conferiva il gusto
del frutto proibito, stabiliva implicitamente: tu hai tutto da perdere e tutto
da guadagnare, io non mi gioco nulla. È evidente la rappresentazione di una
dimensione immaginaria all’interno della quale l’interlocutore può agognare e allucinare
la soddisfazione del suo desiderio, ma non si rende conto che c’è spazio per un
solo soggetto.
Un’antica storia medievale narra di un giovane cavaliere
che si era perso nel buio delle segrete di un castello inglese e disperava di
poterne uscire, quando ad un tratto nello stretto corridoio cieco, in cima a
una scala, si aprì una piccola porta e apparve una bellissima fanciulla dal
volto illuminato dalla luce di una candela che serrava tra le dita. Il cavaliere,
estasiato dall’aspetto e credendola un’ancella, le disse: “Se mi aiuti a uscire
di qui ti farò mia sposa!” E la fanciulla, che era la principessa del castello,
con un dolcissimo sorriso gli rispose: “Attento cavaliere, che tu esisti perché
la mia candela è accesa. Posso spegnere la candela con un soffio, e tu non
esisti più. Non ti ho mai visto. Se torno indietro e richiudo quella porta tu languirai
al buio fino alla morte e nessuno udrà mai i tuoi gemiti. Tu sei in mio potere,
lo capisci?”.
Sembra che storie come questa abbiano inciso sul modo
in cui la regina concepiva e gestiva molti dei rapporti personali mediati dal suo
ruolo politico, più della lettura dei classici e di anni di esercizi teologici
di esegesi testuale evangelica.
Al buio e dipendente dal lume della sua candela vi era
stato per cinque anni l’erede al trono di Francia, rimasto in suo potere in un
rapporto che riuscì ad impedirgli di sposare l’Infanta iberica, scongiurando la
fusione dei due grandi regni cattolici di Francia e Spagna, e sventando il piano
di una grande coalizione per l’invasione dell’Inghilterra.
Per Elisabetta la bellezza non è essenza di un
valore ma immagine di seduzione, non è la sostanza platonica o cristiana che
alberga nell’animo di chi percepisce e riconosce armonia nell’altro e nel
mondo, ma uno strumento per asservire, un inganno desiderato, un nulla creduto
un tutto, una pura apparenza che suscita desiderio.
43. Elisabetta tradisce sé stessa e perseguita
i cattolici, ma le sfugge un “Ufficiale di Dio”. Quando
la sottomissione pacifica dei cattolici inglesi al regime anglicano non bastò
più a Elisabetta, cominciò la persecuzione. Sei studenti di Oxford vennero
rinchiusi nella Torre di Londra per essersi opposti alla rimozione di un
crocefisso dalla cappella del loro collegio[21].
Cinquantamila cattolici che si erano rifiutati di partecipare al rito
anglicano, assistendo alla messa celebrata clandestinamente in case private,
anche se avevano pagato la multa e l’obolo per i poveri, furono diffidati dal
Consiglio Reale; dei 438 sacerdoti cattolici in quel periodo ordinati
clandestinamente, 98 furono scoperti e condannati a morte[22]
con barbara e immediata esecuzione della sentenza. Non si diede pubblicità all’assassinio
di stato dei sacerdoti per evitare che i cattolici ne facessero dei martiri, e così
lasciare nell’immaginario collettivo che le sofferenze patite dai protestanti
ed esposte nel libro di John Foxe, che protestanti e anglicani chiamavano The
Book of Martyrs[23],
rimanessero l’unico riferimento di quel genere conosciuto dal popolo inglese.
Furono perquisite tutte le case di Londra sospette
di ospitare celebrazioni clandestine della messa o anche solo di conservare
simboli della confessione apostolica romana; tutti gli stranieri trovati furono
condotti davanti al magistrato e ingiunti di provare la loro fede anglicana. Coloro
che, credendosi al sicuro, avevano partecipato al rito domenicale nella cappella
dell’ambasciatore di Spagna furono arrestati e, senza processo, furono tratti
in catene e reclusi in carcere. Elisabetta, dopo aver accusato l’Arcivescovo
Parker di non essere abbastanza duro con i cattolici, equiparò il semplice
possesso di libri di teologia romana ai crimini più gravi, incaricando i
magistrati di punirli con la massima severità[24].
Gli atti persecutori si moltiplicarono negli anni
seguenti e, nonostante tutta la cura impiegata nel tener segreti soprattutto quelli
più cruenti, le notizie si diffusero nel continente arrivando in Vaticano. Papa
Pio V non agì subito e attese ancora conferme, sperando in un ripensamento
della sovrana, magari memore di essere stata ella stessa cattolica in almeno
due periodi della sua giovinezza. Il pontefice, non ottenendo notizie di una
riduzione delle misure persecutorie, dopo “un rinvio lungo e paziente, pubblicò
una bolla (1570) che non soltanto scomunicava Elisabetta ma liberava i suoi
sudditi dall’esserle fedeli, proibendo loro di «ubbidire ai moniti, comandamenti
e leggi di lei»”[25]. La
bolla papale fu tenuta segreta da Elisabetta, ma nottetempo un cattolico ne
affisse una copia sul portale della sede vescovile di Londra; il coraggioso fu
immediatamente individuato e senza pietà ucciso, in esecuzione di una pena
capitale immediata[26].
La bolla papale fu considerata alla stregua di una
dichiarazione di guerra, per giustificare l’uso di norme militari dei codici bellici,
e i ministri chiesero alla regina l’autorizzazione a promulgare leggi speciali
anticattoliche. Si stabilì che era delitto capitale meritevole della pena
di morte introdurre in Inghilterra una bolla papale – dopo aver già ucciso chi
lo aveva fatto – e poi la pena di morte fu sancita anche per chi avesse chiamato
eretica, scismatica, usurpatrice o tiranna la regina, e chi osasse provare a convertire
alla fede della Chiesa cattolica un protestante.
Proprio quest’ultima disposizione ci conduce a una
vicenda che ho trovato di estremo interesse, anche se poco conosciuta e approfondita
dagli storici, perché riguarda l’eroica impresa di due missionari clandestini,
che avevano preso le mosse da profonde considerazioni spirituali, riguardo la
sostanza della fede nella sua verità di imitazione di Cristo, quale
incarnazione del Dio vivente.
Le considerazioni possono essere semplificate come
ho provato a fare nella sintesi che segue. La ribellione luterana alla chiesa
si era fondata sulla denuncia dei costumi corrotti, del rischio di idolatria
rappresentato dal culto della Madonna e dei santi, dall’aspirazione a un rigoroso
ritorno alla purezza dell’insegnamento evangelico, ma ora, dopo decenni, si assiste
allo sviluppo di una società protestante che tradisce i tre cardini dell’imitazione
di Cristo: povertà, castità e obbedienza. La virtù
della povertà di Cristo è tradita da una concezione che premia l’operosità
finalizzata al raggiungimento della ricchezza e all’accumulo dei beni come
scopo prioritario della vita, trasformando farisaicamente la carità quale amore
oblativo del prossimo in una piccola elemosina pecuniaria. L’idolatria del
benessere tradisce l’essenza dello spirito cristiano, insegnata da Gesù fin da
quando manda per la prima volta in missione gli Apostoli, raccomandando di
portare con sé solo lo stretto necessario. In massima parte, i ricchi e i borghesi
protestanti apparivano intolleranti verso i poveri, per un costume consolidato
attraverso le leggi: Enrico VIII aveva imposto pene terribili per il reato di accattonaggio.
La virtù della castità, come rinuncia ai
desideri della carne, che allontanano dall’oblazione spirituale di sé a Dio e
al prossimo, orientando la volontà alla soddisfazione egoistica del desiderio,
è tradita dai ministri del culto protestante che prendono moglie, pur presentandosi
come modello di Cristo, che era rimasto celibe in assoluta castità. Infine, la
virtù dell’obbedienza è tradita dai protestanti in molti modi. Invece di
esercitare come comanda Cristo la correzione fraterna di condotte contrarie al
Vangelo, si sono ribellati fondando una ecclesia propria, come se fosse un partito
politico nato dalle convinzioni di Lutero, mentre la Chiesa, come spiega lo
stesso Hobbes nel Leviatano, è stata istituita dal volere di Dio per
mano del suo Figlio, con la nomina di Pietro, Cefa, a fondamento della
sua costruzione e l’affidamento allo Spirito Santo per conservarla nella storia.
Tradiscono la virtù dell’obbedienza perché mancano di umiltà e sottomissione al
prossimo, non seguendo l’insegnamento di Cristo, secondo cui chi vuol essere
primo si faccia servitore di tutti. Inoltre, mancano di obbedienza anche nel
preferire l’interpretazione individuale delle Sacre Scritture all’esegesi
ispirata dei padri della Chiesa.
Premesse queste considerazioni, per narrare
brevemente la vicenda del gesuita Robert Parsons, conosciuto come uomo coraggioso
ed entusiasta, passato alla storia della letteratura inglese quale maestro di
prosa, dobbiamo recarci nel capoluogo culturale delle Fiandre, oggi città francese
di Douai, nata come fortezza romana di Duacum e divenuta a quel tempo una città
dei Paesi Bassi sotto il dominio della Spagna.
È un giorno di celebrazione solenne e si odono
suonare a festa le sessantadue campane della torre dell’Hotel de Ville. Siamo all’inizio
del mese di luglio e, nel nutrito gruppo di prelati alla testa di una solenne processione
che accompagna cinque gigantesche statue portate ritualmente all’attenzione
della devozione popolare, c’è un sacerdote inglese venuto da Rossall, un sobborgo
di Fleetwood nel Lancashire affacciato su una panoramica piana costeggiante il
mare. Il sacerdote si chiama William Allen e ha trovato tra i devoti numerosi
giovani rifugiati, provenienti dall’Inghilterra dove erano perseguitati dai
protestanti, e si rivolge loro con queste parole, che Hughes riporta da un
documento:
“Questo facciamo dispiegando dinanzi agli occhi
degli studenti la soverchiante maestosità del cerimoniale della Chiesa
cattolica nei luoghi in cui viviamo. Allo stesso tempo, richiamiamo il triste
contrasto con quanto accade in patria: il profondo abbandono di tutte le cose
sacre colà esistenti… i nostri amici e parenti, tutti i nostri cari, e per di
più infinite anime, che muoiono nello scisma e senza Dio; tutte le prigioni e
le segrete piene fino a straripare, non già di ladri e delinquenti, ma di preti
e servitori di Cristo, anzi, dei nostri genitori e congiunti”[27].
William Allen prosegue illustrando il progetto di
fondare un collegio di studi superiori e un seminario nel quale preparare i rifugiati
inglesi per il temerario compito di missionari nella propria patria. Sembrava
un progetto folle: chi vorrà studiare e formarsi con digiuni e penitenze per
poi andare incontro a morte sicura in Inghilterra?
Accorsero in tanti per servire il Signore: il
collegio e il seminario furono completati in breve tempo e a capo dei
missionari fu posto Robert Parsons, un gesuita che veniva da un piccolo
villaggio del sudovest dell’Inghilterra, Nether Stowey, ma grazie all’aiuto del
suo parroco aveva potuto studiare a Oxford e conseguire con merito la laurea.
Il seminario fu attivo a Douai fino al 1578, quando
la città fu conquistata dai calvinisti, che misero in fuga docenti e discenti,
costretti a riparare Reims, dove rimasero quindici anni. Tra i meriti di Parsons
e dei seminaristi vi fu il lungo e faticoso lavoro di traduzione in inglese della
Vulgata, che prese il nome di Bibbia di Douai[28].
Quando ebbe formato un numero sufficiente di
seminaristi, Parsons si pose il problema di come riuscire a tentare l’impresa
missionaria, visto che allo sbarco tutti gli stranieri erano controllati e, se
solo sospettati di essere cattolici, erano arrestati e condotti in carcere. L’unica
possibilità gli sembrò far proteggere i seminaristi da un esercito cattolico in
missione speciale, una sorta di “caschi blu” ante litteram, e provò ad
avanzare la richiesta ai diplomatici di Spagna e Francia[29].
L’ambasciatore spagnolo ritenne la missione di conversione degli Inglesi una “pazzia
criminale” e denunciò Parsons al padre generale dell’ordine, Everard Mercurian,
che ammonì il sacerdote a non occuparsi di politica[30].
Ma Parsons non si dava pace e non accettava l’idea
che fosse vanificata l’impresa di formare missionari cattolici inglesi per trasmettere
nuovamente una fede autentica e non “politica”, per tentare di convertire gli
anglicani e, soprattutto, per portare speranza e sacramenti a tutti quei
cattolici che, dopo l’abolizione della messa e dei riti sacramentali romani,
avevano finito per allontanarsi dalla fede e vivere da non credenti. Non voleva
mandare al martirio i suoi giovani allievi, e confidò all’amico Edmund Campion,
anche lui gesuita, di voler trovare il modo per tentare da solo. Notarono che
si trattava di una situazione simile a quella della vita di Gesù, allorquando
doveva tornare a Gerusalemme per compiere la sua missione, ma sapeva che appena
giunto sarebbe stato arrestato e condannato a morte.
Campion disse che in ogni caso sarebbe andato con
lui. Dovevano trovare un modo per superare i controlli e, prima ancora, la rete
di informatori sulla provenienza. Parsons ebbe un’idea, per la quale chiese
aiuto a un connazionale dell’esercito che era Douai: si sarebbe travestito da
ufficiale inglese, dichiarando di essere di ritorno dalla missione nei Paesi Bassi
compiuta dal suo amico. A quel tempo le divise non erano facilmente imitabili e
la loro autenticità valeva più di un documento di identità: realizzate dai
sarti con modelli militari esclusivi, impiegavano stoffe di una speciale lavorazione
inglese con bottoni coniati come monete e, inoltre, con ricami d’oro
costosissimi e difficili da riprodurre; infine, il cappello piumato costituiva
una sorta di caratterizzazione diacritica che consentiva la distinzione a colpo
d’occhio con gli ufficiali di qualsiasi altro paese.
Quando, a sera, Parsons si incontrò con Campion,
aveva appena ricevuto il cappello piumato e, dunque, aveva in prestito l’uniforme
completa; l’amico era entusiasta per lui, perché – gli diceva – indossare l’abito
da ufficiale era come portare scritto “anglicano fedele alla regina”, ma aveva
urgenza di risolvere il problema del proprio travestimento, perché un altro
ufficiale inglese cattolico e compiacente non lo avrebbero trovato. Parlandone
con conoscenti fidati, un mercante viaggiatore di pietre preziose e gioielli
assicurò loro che faceva quella rotta normalmente e che non aveva mai avuto
noie. Allora Parsons, per ottenere il massimo della verosimiglianza, comprò gli
abiti del gioielliere e tutto l’equipaggiamento per il trasporto dei preziosi,
così da rendere Campion molto simile al vero mercante nell’aspetto.
Sbarcati, quando giunsero alla verifica, per il
portamento marziale di Parsons, dopo un’occhiata all’inconfondibile cappello
piumato e ai ricami d’oro della giubba, i funzionari di frontiera non fecero alcun
accertamento e lasciarono passare entrambi senza domande[31].
Felici di aver superato questo primo terribile
ostacolo, i due amici si diressero al centro della capitale e qui, sfruttando l’effetto
della divisa, non ebbero difficoltà ad avere informazioni sui cattolici e, incontrate
persone affidabili, rivelarono a queste la propria identità e così “trovarono
alloggio segreto nel cuore di Londra”[32].
Robert Parsons ed Edmund Campion da quel momento
avviarono un apostolato letteralmente benedetto dal Cielo per la quantità di
frutti che portò.
Visitavano in incognito i cattolici carcerati
portando loro i sacramenti, sostenendoli e incoraggiandoli nel resistere alla
pena rimanendo fedeli; reclutavano laici e sacerdoti per riconvertire gli
apostati e coloro che avevano ceduto per paura, facendo sentire la vicinanza
del Signore con il loro soccorso materiale e spirituale.
Crearono una stamperia clandestina nella quale
stampavano opuscoli pastorali secondo l’insegnamento apostolico romano e
realizzarono anche un documento di controinformazione dichiarando i veri
contenuti della bolla di scomunica della regina Elisabetta e spiegando che la
Chiesa di Roma, con tutti i difetti, i peccati e gli errori degli uomini che vi
avevano fatto parte nei secoli, era erede degli Apostoli e, se dopo trecento
anni di persecuzioni romane e un millennio e mezzo dalla venuta di Cristo esisteva
ancora, sopravvivendo a tutti i regni e gli imperi che si erano succeduti nel
mondo, era per la presenza al suo interno dello Spirito Santo, il Paraclito
annunciato da Cristo.
Alcuni preti secolari che vivevano in clandestinità
in Inghilterra avvertirono Parsons e Campion che la rete di spionaggio della
regina li stava sorvegliando, perché alcuni funzionari che li avevano incontrati
nutrivano sospetti su di loro; temendo che qualora fossero stati scoperti la
persecuzione contro i cattolici si sarebbe inasprita, li scongiurarono di lasciare
il paese al più presto.
Ma i due gesuiti decisero di sfidare lo spionaggio.
Per non esporre a rischio i sacerdoti che li avevano avvertiti lasciarono
Londra, ma solo per cambiare strategia operativa: “Trasferendosi di città in
città, tenevano riunioni segrete, ascoltavano le confessioni, celebravano messa
e impartivano la benedizione ai fedeli oranti che alzavano verso di loro gli
sguardi quasi fossero messaggeri di Dio. In un anno dal loro arrivo fecero – a quanto
si affermava – ventimila convertiti”[33].
Ma, intanto, erano stati scoperti e gli agenti
segreti avevano trasmesso le informazioni al governo, che a quel punto moltiplicò
gli sforzi per catturarli, mettendo in campo l’esercito e scatenando una spietata
caccia all’uomo, che terminò in un inseguimento. Nella fuga disperata al porto,
Parsons riuscì a raggiungere il molo e di volata saltò su una nave in partenza,
che lo portò in salvo dall’altra parte della Manica; Campion, che al momento in
cui furono avvertiti per la fuga stava celebrando messa in un rifugio clandestino,
non poté lasciare tutto e scappare a gambe levate, così fu raggiunto, arrestato
e tradotto in catene alla Torre di Londra.
Elisabetta fu incuriosita da tutta la storia e volle
conoscere l’arrestato. Le fu condotto il gesuita nella sala del trono. Edmund
Campion era un quarantenne alto, snello, di bell’aspetto, dallo sguardo
intenso, con una folta capigliatura pettinata all’italiana, barba corta e
curata, baffi lunghi e sottili, fine nei modi e di un acuto ingegno che emergeva
subito nella conversazione[34].
Elisabetta non era insensibile al fascino tutto
spirituale che emanava quell’uomo, e gli chiese se la riconoscesse come sua
sovrana legittima. Edmund rispose di sì. Allora gli chiese se lui, cittadino
inglese e suo suddito, riteneva che il Papa potesse legittimamente
scomunicarla. A questa domanda il gesuita disse con franchezza: “Non posso
risolvere io un problema sul quale i pareri dei dotti in materia di fede e
dottrina sono discordi”. Elisabetta non fu soddisfatta, ma non si sentì offesa,
e lo rimandò prigioniero alla Torre. A questo punto, bisogna fidarsi delle
fonti storiche anglicane sospette di agiografia, come del resto fanno Will e
Ariel Durant, perché non si trovano fonti di diversa matrice culturale su
questo passaggio. Si legge che la regina diede istruzioni perché Edmund Campion
fosse trattato bene, con ogni riguardo, invece “Cecil ordinò che fosse messo
alla tortura perché facesse i nomi dei suoi compagni nella cospirazione. Dopo
due giorni di tormenti, cedette e disse alcuni nomi; altri arresti seguirono”[35].
Campion spiegò che avevano fatto apostolato nel nome
del Signore e non una cospirazione, allora Elisabetta gli chiese di spiegare ai
ministri protestanti le sue ragioni. Il gesuita, dopo giorni di digiuno e due
giorni di tortura, fu condotto “a una discussione pubblica, che, con il
consenso del Consiglio, si tenne nella cappella della Torre, presenti
cortigiani, prigionieri e pubblico. Per ore il gesuita, in piedi sulle gambe
vacillanti, difese la teologia cattolica”[36].
La sua perorazione gli evitò l’accusa di eresia. Ma
si trattò di una beffa, perché fu accusato di aver cospirato per rovesciare il
governo dall’interno e chiamare l’invasione dall’estero. Era stato arrestato nel
mese di luglio, ma poi lasciato languire nella Torre di Londra per oltre
quattro mesi. Fu ucciso in esecuzione di una sentenza falsa e criminale il
primo di dicembre 1581, insieme con altri quattordici innocenti. Prima dell’esecuzione,
Elisabetta permise che Campion fosse legato a un cavallo e trascinato per le
vie della città fino al patibolo, dopo l’impiccagione ordinò che fosse
sventrato e squartato.
Nel 1970 Papa Paolo VI ha proclamato Santo Edmondo
Campion martire della fede.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-06 novembre 2021
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] E sappiamo che questo avviene
perché gli atomi di piombo del giallo di cromo spiazzano quelli della biacca,
alterando la struttura del composto.
[2] Detto “giallorino” perché tenue,
non intenso e vivace come i gialli di cromo contenenti piombo.
[3] John Richard Green, A Short History of the English People,
cap VII, part 3, Macmillan Company, New York 1874.
[4] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 183; IV, p.
65; V, p. 228, J. M. Dent & Sons, London 1932.
[5] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, op. cit., p. 11.
Chi ne deduce
che fosse una sincera credente, può porsi nuovamente la domanda al termine
della lettura di questi due paragrafi.
[6] Roger Ascham, The Scholemaster,
p. 81; cit. in Will e Ariel Durant, L’Apoteosi Inglese, libro I, in L’Avvento
della Ragione, Vol. I, op. cit., p. 25.
[7] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, III, p. 4, J. M.
Dent & Sons, London 1932.
[8] Hippolyte A. Taine, History of English Literature, p. 160, Frederick
Ungar Publishing Co., New York 1965.
[9] Smith, The Age of the Reformation, p. 634, Henry Holt and
Company, New York 1920.
[10] M. C. Bradbrook, The School of Night, p. 39, Cambridge
University Press, Cambridge 1936.
[11] M. C. Bradbrook, The School of Night, op. cit., p. 12.
[12] Robertson, Freethought, II, p. 10, cit. in Will e Ariel Durant,
op. cit., p. 26.
[13] Will e Ariel Durant, op. cit.,
p. 26.
[14] La traduzione delle preghiere diviene
“una parte nobile e formativa della letteratura nazionale” (Durant, p. 28).
[15] Il suo precettore Roger Ascham
era più interessato a renderla edotta delle ragioni dei protestanti, per
istillarle i principi della sua confessione, che a un insegnamento pastorale
delle Sacre Scritture che l’aiutasse a salvare l’anima.
[16] Will e Ariel Durant, L’Apoteosi
Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I, op. cit., p. 12.
[17] Non si trattava semplicemente di
una “doppia morale”, ma di una prassi di governo che sarà conservata nei
secoli: la regina o un erede al trono dedica una parte importante del proprio tempo
a rappresentare con attività sociali, umanitarie e culturali i valori
professati dalla casa reale, rendendo pubblica un’immagine di atti concreti.
Non è dunque una “propaganda di regime” autocelebrativa, ma un’attività
politica con fini di propaganda. Lady Diana, dopo essersi a lungo impegnata in
questo compito, lo abbandonò, trovandolo eccessivamente faticoso e stressante. Questo
costante lavoro nel Regno Unito, al tempo della Guerra del Golfo, ha conservato
le simpatie ai Britannici, alienandole agli Statunitensi, nonostante tutte le decisioni
impopolari attuate dai due paesi fossero state concepite a Londra.
[18] Note e Notizie 10-04-21 Specchio
della psiche e della civiltà – prima parte.
[19] Ci istruisce sulla storia del
concetto nella sua realtà antropologica l’etimo della parola greca symbolon
e del verbo greco symballo, “gettare insieme”. Il simbolo (symbolon)
era una grande moneta di terracotta che i due contraenti di un patto spaccavano
in due, detenendo ciascuno una parte: quando si ritrovavano per concludere l’accordo,
verificavano il combaciare delle due metà a garanzia della reciproca titolarità
a beneficiare del concordato. Il simbolo è appunto un patto sul significato.
[20] Note e Notizie 10-04-21 Specchio
della psiche e della civiltà – prima parte.
[21]
Pastor, History of the Popes, op. cit., p. 250.
[22] Cfr. Will e Ariel Durant, L’Apoteosi
Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I, op. cit., p. 30.
[23] Nel 1559 John Foxe pubblicò in
latino un appassionato commentario protestante, il Rerum in ecclesia
gestarum (originariamente in più volumi), che nel 1563 fu tradotto in
inglese col titolo Actes and Monuments. I militanti del protestantesimo
inglese lo chiamarono The Book of
Martyrs, usandolo
come testo per prediche volte a fomentare l’odio per i cattolici.
[24] Philip Hughes, The Reformation in England, III, p. 159, Hollis
& Carter, London 1950.
[25] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 29.
[26]
Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., idem.
[27] Philip Hughes, The Reformation in England, III, op. cit., p.
289.
[28] Il completamento di tutto il
lavoro di traduzione della Bibbia nella lingua di Shakespeare richiese 28 anni
(1582-1610) e quindi la prima edizione a stampa fu pronta solo un anno prima
della Bibbia del re Giacomo.
[29] Molti storici riportano che il gesuita aveva sollecitato l’invasione
militare dell’Inghilterra, ma la cosa mi è parsa strana, in quanto all’epoca
dei fatti Parsons era un semplice sacerdote sconosciuto ai più e privo di
qualsiasi potere. Ho letto anche che Parsons avrebbe affermato che la bolla
papale che delegittimava Elisabetta ne giustificava l’omicidio. Indagando un po’,
ho potuto accertare che tutti questi storici erano protestanti e non avevano
fatto altro che riportare la versione denigratoria e le voci fatte circolare ad
arte dei loro correligionari dell’epoca. Un solo storico inglese cattolico,
ossia il Pastor, ammette questa possibilità, forse influenzato dall’uniformità
storiografica. Naturalmente, chi conosceva le vicende biografiche di Parsons e
il commovente ed eroico impegno caritativo quotidiano dei cattolici
perseguitati che pregavano per i loro aguzzini, non poteva minimamente credere
a quelle calunnie.
[30] Joseph McCabe, A Candid History of the Jesuits, p. 148, E.
Nash, London 1913. Si
può leggere online: sul sito onlinebooks.library.upenn.edu nella
trascrizione curata da John Mark Ockerbloom.
[31] Cfr. Will e Ariel Durant, op.
cit., p. 31.
[32] Will e Ariel Durant, op. cit.,
p. 31.
[33] Will e Ariel Durant, op. cit.,
p. 31.
[34] Cfr. Joseph McCabe, A Candid
History of the Jesuits, op cit., e per l’aspetto il ritratto a olio di
Tyburn del 1581.
[35] Will e Ariel Durant, op. cit., idem.
[36] Will e Ariel Durant, op. cit.,
p. 32.