Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 06 novembre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Ventunesima Parte)

 

42. Elisabetta allo specchio concepisce la riforma anglicana a propria immagine e usa il potere della candela. Ritroviamo Elisabetta allo specchio, intenta a stendere con cura sul viso la sua famosa crema bianca, così densa da assomigliare più a una pasta cerosa che alle creme di latte in uso all’epoca. La regina si trucca e pensa alle prossime mosse da compiere, mentre fuori infuriano gli scontri tra riformatori protestanti, che vogliono imporre alla maggioranza cattolica l’abbandono di rito e dottrina romana, e varie fazioni di conservatori, oltre a un’organizzata rappresentanza di seguaci inglesi di Calvino, che dal 1564 – l’anno in cui muore Michelangelo e nascono Galileo e Shakespeare – sono chiamati puritani, perché intendono purificare il protestantesimo inglese da tutte le forme non esplicitamente indicate nel Nuovo Testamento.

La sovrana si è resa conto che col passare degli anni la sua pelle comincia a invecchiare e il latteo candore del suo viso, celebrato dai poeti, è svanito; tuttavia, non vuole rinunciare all’arma della seduzione dei capi delle fazioni, prima di essere costretta a deliberare, fingendo di deplorarle, torture e pene di morte per disobbedienti e facinorosi. A quel tempo non esisteva la moderna industria cosmetica, e certamente per schiarire il volto e renderlo come da giovane non bastavano le antiche ricette di bellezza delle erboriste e delle dame di palazzo: si trattava di creare un prodotto nuovo. La scienza del colore era allora posseduta dai pittori, che conoscevano e si tramandavano come segreto di bottega le proprietà delle materie coloranti, spesso attraverso racconti esemplari o veri e propri miti, che sopperivano all’ignoranza della natura chimica dei composti, a volte con sorprendente efficacia.

Bisognava realizzare un impasto che non evaporasse o fosse assorbito facilmente, avesse capacità coprente ma anche un corpo leggermente trasparente e non la consistenza della creta usata degli attori di masque per modificarsi il viso. Soprattutto, doveva contenere un colorante bianco. I grandi maestri, come i manoscritti sui colori, erano italiani. Esistevano due categorie di bianchi: quelli riconducibili alla mitica ricetta del “Bianco del Vecchio della Montagna”, a base di zinco, e le cerusse o biacche, come quella impiegata da Raffaello, a base di piombo. Il candore splendente delle biacche era di gran lunga superiore al bianco smorto dei composti a base di zinco, ma molti pittori le evitavano ed evitavano anche i gialli di cromo, empiricamente perché la mescolanza di biacche e cromati alterava la tinta quando asciutta[1], ma anche perché nelle storie antiche si leggeva di proprietà malefiche di questi colori, come dei composti gialli dell’arsenico, per ovvi motivi. Per evitare ogni rischio, molti pittori usavano il bianco di zinco e un giallo ottimo nelle mescolanze e privo di tossicità, che si produceva a Napoli e per questo detto “giallo di Napoli”, ma, essendo preferito e raccomandato da Leonardo da Vinci, era noto in Europa anche come giallorino di Leonardo[2]. La crema bianca della regina Elisabetta conteneva biacca, e dunque composti del piombo, per cui alcuni storici hanno addirittura ipotizzato che la sua morte sia avvenuta per intossicazione da piombo causata dall’uso di quella crema.

Ma, intanto, la regina allo specchio ha quasi completato la copertura dell’ovale del viso, mentre continua a pensare a quali possano essere le prime mosse da compiere in quella contingenza di piazza. Infatti, sa quanto sia difficile sedare e gestire gli scontri tra fazioni, conservando il consenso necessario ad attuare il progetto che ha ben chiaro in mente: fondare una nuova confessione per rendersi indipendente dal Papa e allo stesso tempo non rischiare di consegnarsi ai nuovi potentati economico-finanziari luterani dei paesi di cultura germanica, desiderosi di colonizzare le isole britanniche. Sa che le prime mosse sono importanti, perché sarà una lunga partita a scacchi con il clero, tutto cattolico, e con i magistrati, anche loro in massima parte di osservanza apostolica romana; senza contare la resistenza che potrebbero opporle i suoi collaboratori protestanti più rigorosi.

Elisabetta ha finito il trucco e, mentre ancelle e dame l’aiutano a comporre e completare la sua immagine pubblica, incontra di nuovo il suo viso allo specchio: è pronta e può sorridere a sé stessa, perché ora sa cosa fare. Ecco l’idea geniale: non cadrà nella trappola di schierarsi dalla parte dei protestanti o da quella dei cattolici, interverrà attaccando a sua volta John Knox, un capo puritano che oggi definiremmo un irriducibile maschilista, il quale aveva pubblicamente dichiarato il suo disprezzo per le donne regine, e chiederà a tutto il suo popolo di mobilitarsi contro questa minoranza oltraggiosa, anche a nome delle altre donne regnanti.

Un colpo da fuoriclasse della politica, efficace e riuscito, ma è solo una prima piccola mossa che sarà presto dimenticata. Il secondo passo compiuto dalla sovrana è la sensibilizzazione alla necessità di cambiamento, persuadendo i protestanti che il loro proselitismo era stato efficace fin quando erano stati visti come portatori di una spiritualità nuova, e i cattolici che, per battere l’attivismo dei protestanti, fosse necessario rifondare lo stile cristiano della propria vita secondo un impegno nuovo nella promozione della fratellanza e dell’unione nell’amore reciproco. Il terzo passo faceva leva sull’orgoglio nazionale: le cose nel mondo cristiano non vanno più bene in materia religiosa e a noi Inglesi, che sappiamo contemperare la libertà individuale con la partecipazione collettiva, spetta l’alto compito storico di edificare una nuova chiesa nazionale nel rispetto della tradizione evangelica per fare da capofila e traino agli altri popoli, come avevano fatto i primi cristiani fondando la Chiesa di Roma.

Per la realizzazione del progetto della nuova Chiesa Anglicana, Elisabetta parte dall’analisi della realtà religiosa nella società inglese e, soprattutto, dall’esame delle coscienze dei suoi collaboratori e di tutti gli intellettuali carismatici riconosciuti dai sovrani europei e con capacità di influenza sui circoli culturali e sulle masse. Ma, prima di parlare di questa analisi che oggi descriveremmo come inchiesta sociologica di massa e studio della psicologia religiosa di un campione dell’élite culturale, è lecito porsi le domande: Elisabetta era credente? Qual era il suo modo intimo e personale di concepire la dimensione spirituale?

Per entrambe le domande, le risposte che emergono dai documenti suggeriscono una distinzione in due periodi della vita della sovrana: l’età precoce della formazione e l’età adulta del regno.

A seguito della perdita della madre Anna Bolena, decapitata dopo una condanna per incesto col fratello, numerosi adulteri, stregoneria e alto tradimento, la piccola Elisabetta crebbe fino all’età di sette anni ad Hatfield con la sorellastra Maria in un ambiente di profonda spiritualità cristiana cattolica, apparendo salda nella fede, con la semplice spontaneità affettiva dei bambini.

Probabilmente questa esperienza precoce l’aiutò quando, ascesa al trono la sorellastra, le fu ingiunta la confessione cattolica. Ammessa a corte dopo il matrimonio del padre Enrico VIII con Anna di Clèves, protestante ma di madre cattolica, stabilì un buon legame affettivo con la matrigna e, affidata al precettore Roger Ascham, fu istruita ai principi del protestantesimo e divenne profonda nella conoscenza teologica, coltivando l’interiorità spirituale come responsabilità della creatura nei confronti del Creatore, concepito quale Ente supremo costantemente presente alla coscienza morale dell’individuo. Conservò a lungo l’abitudine di svolgere un compito quotidiano di teologia; con tale consuetudine, deve averne eseguiti più di qualsiasi seminarista dei nostri giorni. Possiamo dunque desumere che da ragazza Elisabetta fosse sinceramente credente.

Tutt’altra impressione e altri giudizi suscita da adulta la regina in coloro che hanno modo di incontrarla, frequentarla e conoscerla, al punto che, raccogliendo tutte le principali testimonianze dei contemporanei, lo storico John Richard Green a un paio di secoli di distanza così si esprime: “Nessuna donna mai visse che fosse così totalmente priva del sentimento religioso”[3]; e gli fa eco James Anthony Froude: “Elisabetta era priva di precise convinzioni sentimentali… Elisabetta, per la quale il credo protestante era tanto poco vero quanto quello cattolico ebbe disprezzo per il dogmatismo religioso, con un atteggiamento tipico della tolleranza anglicana”[4].

Si legge anche che, quando amoreggiava per fini politici con il duca di Alençon erede al trono di Francia, con orrende imprecazioni che scandalizzavano gli astanti, chiamava a testimone l’Altissimo, chiedendogli di annientarla se non avesse mantenuto la promessa di sposare il giovane francese e, un momento dopo, in privato, si faceva beffe delle pretese alla sua mano del duca innamorato. Dichiarò a un ambasciatore che le differenze tra le fedi cristiane in lotta erano “una pura bagatella”, dal che questi dedusse che la regina fosse sostanzialmente atea.

Personalmente, ritengo che non sia possibile dedurre dai suoi scritti, dai suoi comportamenti e da tutte le testimonianze dell’epoca, indizi certi e univoci sulla realtà delle sue convinzioni intime e profonde. Non credo di poter fare emergere, come mi è sembrato di essere riuscito a fare per Leonardo e Galileo, aspetti di un nucleo autentico di personalità, dentro la forma delle parole e degli atti cristallizzati dalla storia nel personaggio costruito dai biografi. Forse perché la finzione, la doppiezza, l’ambiguità, la mancanza di sincerità, costituiscono l’unica cosa vera e certa del suo modo di essere.

Ad esempio, quanto sono vere e sentite le parole del discorso da lei scritto e pronunciato il 20 novembre 1558 in occasione della sua incoronazione davanti ai ministri, alla corte, ai rappresentati del popolo e ai delegati di tutto il mondo? A voi il giudizio:

“Miei Lord, le leggi di natura mi spingono al rimpianto per mia sorella; il fardello che ricade su di me, mi sgomenta; eppure, considerando che io sono una creatura di Dio tenuta ad obbedire all’ordine Suo, ad esso mi sottometterò; dal fondo del cuore desiderando di poter essere assistita dalla sua grazia per adempiere sulla terra la Sua volontà nel compito ora affidatomi. E poiché materialmente altro non sono se non un corpo, ma per il Suo consenso un corpo che governa la politica, così desidero che voi tutti, signori, principalmente voi della nobiltà, ciascuno secondo il grado e il potere, mi siate di aiuto affinché, io con il mio governo e voi con il vostro servizio, possiamo ben rendere conto dell’operato nostro all’Onnipotente, lasciando ai nostri posteri in terra una qualche consolazione”[5].

Torniamo dunque all’indagine condotta dalla regina sulle convinzioni religiose, filosofiche e morali dei suoi collaboratori, dei ministri, della corte, dei nobili e del popolo. Il primo parere di cui ha tenuto conto è stato quello del suo precettore Roger Ascham che, nel suo Scholemaster, lamenta la mancanza di profondità spirituale dei suoi connazionali inclini, nell’acquisire la cultura italiana, a importare frivolezze e licenziosità piuttosto che l’abitudine a meditare opere di filosofia morale e testi sacri. Scrive, infatti, che il proverbio italiano che celia gli inglesi italianizzati “non si riferiva alla loro vanità, quanto alle loro impudiche opinioni in fatto di religione… Essi facevano conto più del De officiis di Cicerone che delle Epistole di San Paolo, più d’una novella di Boccaccio che d’una storia della Bibbia. Quindi, hanno in conto di favole i sacri misteri della religione cristiana. Fanno che Cristo e il suo Vangelo servano soltanto a fini civili; quindi né l’una né l’altra confessione (protestantesimo o cattolicesimo) giunge a loro importuna. A seconda del momento le sosterranno apertamente, salvo a farsene beffe in privato… Il cielo che essi desiderano è soltanto il loro piacere personale e il loro vantaggio privato; così apertamente dichiarando di quale scuola essi siano: epicurei quanto alla vita e atheoi quanto alla dottrina”[6].

Se questo ritratto degli Inglesi di recente acculturazione non include la regina, come a me sembra, sicuramente indica un terreno di coscienza sgombro da radicate convinzioni morali e quindi favorevole, come una tabula rasa, alla costruzione della nuova concezione anglicana.

Elisabetta ascolta il consigliere preferito, Cecil, il quale lamenta che “coloro che irridono alla religione, epicurei e atei, sono dovunque”[7]; poi John Strype, secondo il quale “molti erano del tutto lontani dalla comunione ecclesiale, e non andavano più ad ascoltare il servizio divino”[8], e John Lyly il quale riteneva che “mai vi fossero state tali sette fra i pagani… tale miscredenza fra i fedeli, quale oggi esiste fra gli studiosi”[9]. Viene a conoscenza dei numerosi libri scritti da teologi e altri pensatori contro l’ateismo. Anche se, a questo proposito, è opportuno fare una precisazione: per i teologi e i filosofi inglesi di quegli anni la parola “ateo” non designava colui che non crede nell’esistenza di Dio, ma un credente, come quelli di religione ebraica o islamica, che non riconosce la divinità di Gesù Cristo.

Sappiamo che la regina conosceva drammaturghi come Green, Kyd e Marlowe e la loro fama di atei – a quanto pare in senso proprio – e conosceva il significato di questi due oscuri versi di Pene d’amor perdute di Shakespeare:

 

O paradosso! Nero il segno dell’Inferno,

il colore della cella e la scuola della notte.

 

La “scuola della notte” era la casa di campagna di Walter Raleigh che ospitava i convegni di astronomia di Thomas Harriot, cui prendevano parte Lawrence Keymis e, sembra, anche Marlowe e Chapman. Da una cella nera si facevano osservazioni del cielo secondo la scienza di Galileo Galilei, e a volte si affrontavano anche argomenti di chimica, geografia, filosofia e teologia. Harriot, come sappiamo da Anthony Wood, aveva idee molto personali sulle Sacre Scritture, svalutava il racconto allegorico della Creazione e scrisse una Philosophical Theology in cui si sbarazzava del Vecchio Testamento; infine, Wood precisa che credeva in Dio, ma non nella divinità di Gesù Cristo[10]. Il gesuita Robert Parsons chiama quella di Raleigh e Harriot “una scuola di ateismo dove ci si faceva beffe di Mosé e del nostro Salvatore”[11].

L’inchiesta si conclude qui: Elisabetta è in ottimi rapporti con Walter Raleigh che, come abbiamo visto, è uno dei suoi adulatori di professione, e lo protegge quando viene accusato di ateismo e portato a processo, consentendogli di scagionarsi con una dichiarazione scritta, da lui inclusa nella prefazione del suo libro History of the World, e consistente in una digressione sulla fede in Dio[12]. La regina ha deciso che questa mancanza di profonde radici confessionali, di passione religiosa, di certezza nella sostanza della verità di Dio quale dimensione profonda di ciascuno, costituiscono il punto di partenza migliore per costruire un culto completamente orientato dalla sua valenza politica.

Elisabetta non sembra temere il rischio di strutturare una religione senza Dio perché, anche se a parole lo nega, al centro del terreno, temporale e materiale apparato anglicano ha posto sé stessa. Il piano, anche se rimarrà imperfetto e incompiuto, prevede una dimensione simbolica del credo che non rimanda, come vuol fare apparire, a una sostanza di senso assoluto e trascendente, ma è prevalentemente autoreferenziale, appiattendosi sulla struttura della dimensione significante.

La differenza con un credo che si basa sulla sostanza della verità, come la fede del martire, è abissale: la fede fondata sull’assoluta verità di Dio non è mai posta in questione in nessuna vicenda umana, perché Dio esiste a prescindere da ciò che pensano e fanno gli uomini; un apparato politico-religioso che si statuisce sulle forme che lo caratterizzano e lo identificano, dipende strettamente da coloro che lo sostengono e lo riconoscono, ed esiste se e quando vi sono persone che gli danno vita. Per questa “ragione di vita o di morte” può facilmente diventare violento e criminale con i dissenzienti e con chi si rifiuta di riconoscerlo.

Ma, torniamo alla riedificazione anglicana. La regina con un nuovo Atto di Uniformità elegge un’edizione riveduta e corretta del Book of Common Prayer di Cranmer a norma liturgica inglese, abolendo ogni altro libro religioso.

In realtà a Elisabetta piacevano molti aspetti del cristianesimo cattolico: amava i cerimoniali della Chiesa di Roma, approvava senza riserve il celibato dei sacerdoti, era attratta dalla santa messa con la celebrazione eucaristica cancellata dai protestanti e “avrebbe fatto pace con la Chiesa se non avesse richiesto di sottomettersi al papato”[13]. Il padre, Enrico VIII, l’aveva allevata a un protestantesimo che era in realtà un cattolicesimo senza il Papa, e questo fu sostanzialmente il suo progetto.

La messa fu abolita, ma il clero doveva vestire paramenti bianchi come quelli cattolici e usare il piviale per amministrare l’Eucaristia. Da sottolineare che a quel tempo tutta la messa cattolica era focalizzata sulla celebrazione eucaristica, senza la liturgia della parola attuale, riservata ad altre circostanze, mentre il servizio dei protestanti non ammetteva la comunione. Elisabetta volle che gli anglicani ricevessero la comunione col Corpo e il Sangue di Cristo nelle due specie del pane e del vino, rimanendo in ginocchio durante la cerimonia. L’invocazione dei santi fu sostituita da quella degli eroi protestanti. La cresima e la consacrazione rimasero come riti anche se non considerati sacramenti istituiti dal Signore. La “confessione a orecchio”, ossia rivolta al sacerdote, che non esiste fra i protestanti, non fu abolita, ma resa facoltativa e consigliata in punto di morte. La maggior parte delle preghiere di Santa Romana Chiesa fu conservata, ma in molti casi furono tradotte in inglese, così da apparire nuove e anglicane[14].

Elisabetta sperava che la liturgia semi-cattolica avrebbe soddisfatto la silenziosa maggioranza cattolica, mentre l’abolizione ufficiale della messa avrebbe placato gli attivisti protestanti.

In questa riforma anglicana la regina mostrò una notevole conoscenza tecnica delle procedure liturgiche e dei codici canonici.

La verità è che Elisabetta ha studiato più la religione che la parola di Dio[15]; e più che dalla Verità del Logos è affascinata dal potere posto in gioco dalla gestione simbolica dei rituali religiosi e dalla possibilità di usarli strumentalmente a fini di governo e dominio del popolo e delle gerarchie sociali rappresentate in parlamento. I monarchi hanno da sempre impiegato quella rappresentazione materiale del potere simbolico che va dal costruirsi monumentali palazzi, dalle dimensioni in grado di intimidire il popolo minuto e consentire di levare la loro voce come dei dall’Olimpo, fino all’apparire in pubblico con tutti i segni esclusivi e distintivi di un’identità superiore e inimitabile. Ma, in genere, l’uso di queste forme non andava oltre le convenzioni tradizionali e cerimoniali, Elisabetta invece stava affinando i modi per sfruttare tutte le risorse dei significanti simbolici per scopi di governo, conquista, crescita economica, espansione commerciale, alleanze politiche, soluzione di controversie, esercizio di egemonia.

La regina studia e considera i modi per attrarre e asservire nati in seno alla Chiesa, anche quando si tratta di aberrazioni, purché si siano rivelate efficaci, cercando di derivarne un modello da riadattare: dalla compravendita di indulgenze, che fu causa precipitante della Riforma, al ricatto morale esercitato dai protestanti per ottenere finanziamento e supporto. La figlia di Anna Bolena comprende che l’efficacia del potere simbolico religioso si basa sul valore condiviso di verità, cui fa implicitamente riferimento, e che la perdita del potere si ha quando appare che il presupposto di verità sia stato tradito, come sembrò a Lutero.

A proposito del valore condiviso di verità, Elisabetta aveva vissuto un’esperienza che l’aveva segnata profondamente. Nel 1536 un atto del parlamento aveva dichiarato nulle le nozze del padre Enrico VIII con la madre Anna Bolena, dichiarandola figlia illegittima; nel 1544 un nuovo atto parlamentare, pur non riconoscendola moralmente e legalmente figlia di una coppia reale, aveva ammesso la possibilità della sua successione al trono dopo il fratellastro Edoardo e la sorellastra Maria, secondo un’interpretazione protestante del diritto di successione. Allora Elisabetta, durante il regno di Edoardo, aderì al protestantesimo. Ma, ascesa al trono la sorellastra cattolica Maria, che non avrebbe mai lasciato il trono a una protestante, Elisabetta ormai ventenne ritornò cattolica.

E a questo punto si verifica la beffa: leggiamo, infatti, che nel 1553 il parlamento di orientamento cattolico “aveva ribadito l’invalidità delle nozze della madre e del padre, Stato e Chiesa erano d’accordo nel considerarla bastarda, e la legge inglese, dimentica di Guglielmo il Conquistatore, escludeva dalla successione al trono i bastardi. L’intero mondo cattolico – e l’Inghilterra era per gran parte cattolica – credeva che legittima erede allo scettro d’Inghilterra fosse la pronipote di Enrico VII, Maria Stuarda. Suggerirono a Elisabetta che se si fosse rappacificata con la Chiesa, il Papa l’avrebbe assolta dalla condizione di bastarda, riconoscendole il diritto a regnare”[16]. Non aveva però la certezza di questo e poi, come vedremo più avanti, intervennero altre ragioni che la indussero a non percorrere questa via.

Una vicenda sconcertante, nella quale nessuna delle due parti, né la futura regina né il parlamento, si preoccupano di cercare la verità come sostanza: Elisabetta non si pone minimamente il problema di capire quale confessione fosse più vicina alla Verità di Gesù Cristo, e cambia per puro opportunismo; l’assise politica, dal canto suo, delibera esclusivamente in base al formalismo giuridico confessionale, senza che nessun rappresentante ponga il problema di coscienza spirituale – visto che il diritto a regnare era considerato divino – relativo a come quel vincolo sacramentale si rappresentasse agli occhi di Dio.

Ma torniamo alla regina che studia l’uso evocativo, suggestivo e condizionante dei simboli.

Studiando la forza simbolica del potere religioso, rappresentato agli occhi del mondo dal linguaggio universale e spesso sublime della figurazione artistica, Elisabetta desume l’importanza di curare l’immagine personale e della monarchia, quale idealità realizzata di bellezza, bontà e saggezza al servizio del buon governo, occultando e disconoscendo tutto ciò che si ritenga necessario ma potrebbe offuscarne la fama, come nel caso dell’ingaggio segreto dei corsari[17].

Mi sembra opportuno, a questo punto, precisare che l’uso strumentale del potere simbolico è esperito da Elisabetta come una pragmatica nell’esercizio di un privilegio, senza accedere a un livello più elevato di comprensione astratta e generale della dimensione simbolica, per il quale sarà necessario attendere qualche secolo di riflessione filosofica, fino a ritrovarlo in Nietzsche come qualità del suo Übermensch e approdo personale di coscienza, del quale ho scritto in precedenza:

“Quella di Nietzsche è la certezza proterva di chi sa che il gioco della vita è truccato a favore del croupier, ovvero di chi detiene il banco del potere, ma sa anche come barare per farsi giustizia da solo e vincere ogni posta, ad ogni mano, ad ogni puntata, giocando su tutti i tavoli con la tracotanza beffarda e guascona di chi sa di essere protetto dal segreto che lo accomuna ai detentori politici delle facoltà di governo: l’uso oculato e scaltro dell’influenza suggestiva e dell’effetto evocativo dei valori simbolici[18].

La possibilità di usare questo effetto evocativo nel registro del reale comporta, tuttavia, nella massima parte dei casi, l’essere titolare riconosciuto della struttura simbolica in questione, altrimenti la pretesa scoppia come una bolla di sapone e si dilegua senza lasciare traccia nella realtà, se non l’eco di qualche risata. A parole soltanto la volontà soggettiva può surrogare quella condivisione del senso che si rappresenta come oggettività[19]. E, infatti, al riguardo aggiungevo: “Ma aver compreso il potere dei simboli non vuol dire esserne il padrone, allora fingere di esserlo, andando oltre il mostrarne il valore a chi, cieco e sordo, rimane schiavo dell’ordine simbolico, cos’altro è se non una trovata, una boutade, trasformata in un’iperbole filosofica tesa al punto da farsi prendere sul serio anche dai più esigenti?”[20].

Elisabetta agisce sempre da padrona riconosciuta dei simboli, e la sua abilità consiste nell’impiegarli come elementi codificati nel suo linguaggio abituale.

Nell’abile sviluppo delle sue trame impiegava scaltre strategie con le quali riduceva spesso all’angolo il malcapitato, che si trovava di fronte ad una alternativa obbligata, quel classico aut-aut tertium non datur, che nel gioco d’intelletto per eccellenza importato un secolo prima dall’Italia precedeva lo scacco matto: o accetti di stare al gioco della mia commedia o sono costretta ad assegnarti il ruolo di vittima in una mia tragedia.

La sovrana eccelle in un’abilità di gioco interpersonale tutto psicologico, fatto di tecniche che le consentono l’uso di una perfetta sintesi tra effetto evocativo dei simboli del potere e seduzione personale intesa a suscitare sentimenti. Fin dall’approccio riesce a far passare una sua regola del gioco: stabilisco io la distanza fra me e te, momento per momento; se ti sta bene si può andare avanti, se no puoi andartene, perché una regina non ha bisogno di nessuno, in quanto Iddio le ha dato i sudditi per i quali servirla è un dovere. L’accettazione implicita di questa regola, come era accaduto per Filippo II di Spagna, Carlo IX di Francia, per il duca di Alençon, per Carlo d’Austria, per il re di Danimarca, per il fratello del re di Svezia e tanti altri, era già un inconsapevole capitolare, rinunciando al ruolo paritario di soggetto e parte in rapporti rappresentati socialmente come trattative, contrattazioni, convenzioni o accordi.

La forma seduttiva, annunciata fin dagli esordi con segni di ammiccamento verso l’interlocutore, che potevano alludere a un suo desiderio inibito da una condizione di impossibilità che le conferiva il gusto del frutto proibito, stabiliva implicitamente: tu hai tutto da perdere e tutto da guadagnare, io non mi gioco nulla. È evidente la rappresentazione di una dimensione immaginaria all’interno della quale l’interlocutore può agognare e allucinare la soddisfazione del suo desiderio, ma non si rende conto che c’è spazio per un solo soggetto.

Un’antica storia medievale narra di un giovane cavaliere che si era perso nel buio delle segrete di un castello inglese e disperava di poterne uscire, quando ad un tratto nello stretto corridoio cieco, in cima a una scala, si aprì una piccola porta e apparve una bellissima fanciulla dal volto illuminato dalla luce di una candela che serrava tra le dita. Il cavaliere, estasiato dall’aspetto e credendola un’ancella, le disse: “Se mi aiuti a uscire di qui ti farò mia sposa!” E la fanciulla, che era la principessa del castello, con un dolcissimo sorriso gli rispose: “Attento cavaliere, che tu esisti perché la mia candela è accesa. Posso spegnere la candela con un soffio, e tu non esisti più. Non ti ho mai visto. Se torno indietro e richiudo quella porta tu languirai al buio fino alla morte e nessuno udrà mai i tuoi gemiti. Tu sei in mio potere, lo capisci?”.

Sembra che storie come questa abbiano inciso sul modo in cui la regina concepiva e gestiva molti dei rapporti personali mediati dal suo ruolo politico, più della lettura dei classici e di anni di esercizi teologici di esegesi testuale evangelica.

Al buio e dipendente dal lume della sua candela vi era stato per cinque anni l’erede al trono di Francia, rimasto in suo potere in un rapporto che riuscì ad impedirgli di sposare l’Infanta iberica, scongiurando la fusione dei due grandi regni cattolici di Francia e Spagna, e sventando il piano di una grande coalizione per l’invasione dell’Inghilterra.

Per Elisabetta la bellezza non è essenza di un valore ma immagine di seduzione, non è la sostanza platonica o cristiana che alberga nell’animo di chi percepisce e riconosce armonia nell’altro e nel mondo, ma uno strumento per asservire, un inganno desiderato, un nulla creduto un tutto, una pura apparenza che suscita desiderio.

 

43. Elisabetta tradisce sé stessa e perseguita i cattolici, ma le sfugge un “Ufficiale di Dio”. Quando la sottomissione pacifica dei cattolici inglesi al regime anglicano non bastò più a Elisabetta, cominciò la persecuzione. Sei studenti di Oxford vennero rinchiusi nella Torre di Londra per essersi opposti alla rimozione di un crocefisso dalla cappella del loro collegio[21]. Cinquantamila cattolici che si erano rifiutati di partecipare al rito anglicano, assistendo alla messa celebrata clandestinamente in case private, anche se avevano pagato la multa e l’obolo per i poveri, furono diffidati dal Consiglio Reale; dei 438 sacerdoti cattolici in quel periodo ordinati clandestinamente, 98 furono scoperti e condannati a morte[22] con barbara e immediata esecuzione della sentenza. Non si diede pubblicità all’assassinio di stato dei sacerdoti per evitare che i cattolici ne facessero dei martiri, e così lasciare nell’immaginario collettivo che le sofferenze patite dai protestanti ed esposte nel libro di John Foxe, che protestanti e anglicani chiamavano The Book of Martyrs[23], rimanessero l’unico riferimento di quel genere conosciuto dal popolo inglese.

Furono perquisite tutte le case di Londra sospette di ospitare celebrazioni clandestine della messa o anche solo di conservare simboli della confessione apostolica romana; tutti gli stranieri trovati furono condotti davanti al magistrato e ingiunti di provare la loro fede anglicana. Coloro che, credendosi al sicuro, avevano partecipato al rito domenicale nella cappella dell’ambasciatore di Spagna furono arrestati e, senza processo, furono tratti in catene e reclusi in carcere. Elisabetta, dopo aver accusato l’Arcivescovo Parker di non essere abbastanza duro con i cattolici, equiparò il semplice possesso di libri di teologia romana ai crimini più gravi, incaricando i magistrati di punirli con la massima severità[24].

Gli atti persecutori si moltiplicarono negli anni seguenti e, nonostante tutta la cura impiegata nel tener segreti soprattutto quelli più cruenti, le notizie si diffusero nel continente arrivando in Vaticano. Papa Pio V non agì subito e attese ancora conferme, sperando in un ripensamento della sovrana, magari memore di essere stata ella stessa cattolica in almeno due periodi della sua giovinezza. Il pontefice, non ottenendo notizie di una riduzione delle misure persecutorie, dopo “un rinvio lungo e paziente, pubblicò una bolla (1570) che non soltanto scomunicava Elisabetta ma liberava i suoi sudditi dall’esserle fedeli, proibendo loro di «ubbidire ai moniti, comandamenti e leggi di lei»”[25]. La bolla papale fu tenuta segreta da Elisabetta, ma nottetempo un cattolico ne affisse una copia sul portale della sede vescovile di Londra; il coraggioso fu immediatamente individuato e senza pietà ucciso, in esecuzione di una pena capitale immediata[26].

La bolla papale fu considerata alla stregua di una dichiarazione di guerra, per giustificare l’uso di norme militari dei codici bellici, e i ministri chiesero alla regina l’autorizzazione a promulgare leggi speciali anticattoliche. Si stabilì che era delitto capitale meritevole della pena di morte introdurre in Inghilterra una bolla papale – dopo aver già ucciso chi lo aveva fatto – e poi la pena di morte fu sancita anche per chi avesse chiamato eretica, scismatica, usurpatrice o tiranna la regina, e chi osasse provare a convertire alla fede della Chiesa cattolica un protestante.

Proprio quest’ultima disposizione ci conduce a una vicenda che ho trovato di estremo interesse, anche se poco conosciuta e approfondita dagli storici, perché riguarda l’eroica impresa di due missionari clandestini, che avevano preso le mosse da profonde considerazioni spirituali, riguardo la sostanza della fede nella sua verità di imitazione di Cristo, quale incarnazione del Dio vivente.

Le considerazioni possono essere semplificate come ho provato a fare nella sintesi che segue. La ribellione luterana alla chiesa si era fondata sulla denuncia dei costumi corrotti, del rischio di idolatria rappresentato dal culto della Madonna e dei santi, dall’aspirazione a un rigoroso ritorno alla purezza dell’insegnamento evangelico, ma ora, dopo decenni, si assiste allo sviluppo di una società protestante che tradisce i tre cardini dell’imitazione di Cristo: povertà, castità e obbedienza. La virtù della povertà di Cristo è tradita da una concezione che premia l’operosità finalizzata al raggiungimento della ricchezza e all’accumulo dei beni come scopo prioritario della vita, trasformando farisaicamente la carità quale amore oblativo del prossimo in una piccola elemosina pecuniaria. L’idolatria del benessere tradisce l’essenza dello spirito cristiano, insegnata da Gesù fin da quando manda per la prima volta in missione gli Apostoli, raccomandando di portare con sé solo lo stretto necessario. In massima parte, i ricchi e i borghesi protestanti apparivano intolleranti verso i poveri, per un costume consolidato attraverso le leggi: Enrico VIII aveva imposto pene terribili per il reato di accattonaggio.

La virtù della castità, come rinuncia ai desideri della carne, che allontanano dall’oblazione spirituale di sé a Dio e al prossimo, orientando la volontà alla soddisfazione egoistica del desiderio, è tradita dai ministri del culto protestante che prendono moglie, pur presentandosi come modello di Cristo, che era rimasto celibe in assoluta castità. Infine, la virtù dell’obbedienza è tradita dai protestanti in molti modi. Invece di esercitare come comanda Cristo la correzione fraterna di condotte contrarie al Vangelo, si sono ribellati fondando una ecclesia propria, come se fosse un partito politico nato dalle convinzioni di Lutero, mentre la Chiesa, come spiega lo stesso Hobbes nel Leviatano, è stata istituita dal volere di Dio per mano del suo Figlio, con la nomina di Pietro, Cefa, a fondamento della sua costruzione e l’affidamento allo Spirito Santo per conservarla nella storia. Tradiscono la virtù dell’obbedienza perché mancano di umiltà e sottomissione al prossimo, non seguendo l’insegnamento di Cristo, secondo cui chi vuol essere primo si faccia servitore di tutti. Inoltre, mancano di obbedienza anche nel preferire l’interpretazione individuale delle Sacre Scritture all’esegesi ispirata dei padri della Chiesa.

Premesse queste considerazioni, per narrare brevemente la vicenda del gesuita Robert Parsons, conosciuto come uomo coraggioso ed entusiasta, passato alla storia della letteratura inglese quale maestro di prosa, dobbiamo recarci nel capoluogo culturale delle Fiandre, oggi città francese di Douai, nata come fortezza romana di Duacum e divenuta a quel tempo una città dei Paesi Bassi sotto il dominio della Spagna.

È un giorno di celebrazione solenne e si odono suonare a festa le sessantadue campane della torre dell’Hotel de Ville. Siamo all’inizio del mese di luglio e, nel nutrito gruppo di prelati alla testa di una solenne processione che accompagna cinque gigantesche statue portate ritualmente all’attenzione della devozione popolare, c’è un sacerdote inglese venuto da Rossall, un sobborgo di Fleetwood nel Lancashire affacciato su una panoramica piana costeggiante il mare. Il sacerdote si chiama William Allen e ha trovato tra i devoti numerosi giovani rifugiati, provenienti dall’Inghilterra dove erano perseguitati dai protestanti, e si rivolge loro con queste parole, che Hughes riporta da un documento:

“Questo facciamo dispiegando dinanzi agli occhi degli studenti la soverchiante maestosità del cerimoniale della Chiesa cattolica nei luoghi in cui viviamo. Allo stesso tempo, richiamiamo il triste contrasto con quanto accade in patria: il profondo abbandono di tutte le cose sacre colà esistenti… i nostri amici e parenti, tutti i nostri cari, e per di più infinite anime, che muoiono nello scisma e senza Dio; tutte le prigioni e le segrete piene fino a straripare, non già di ladri e delinquenti, ma di preti e servitori di Cristo, anzi, dei nostri genitori e congiunti”[27].

William Allen prosegue illustrando il progetto di fondare un collegio di studi superiori e un seminario nel quale preparare i rifugiati inglesi per il temerario compito di missionari nella propria patria. Sembrava un progetto folle: chi vorrà studiare e formarsi con digiuni e penitenze per poi andare incontro a morte sicura in Inghilterra?

Accorsero in tanti per servire il Signore: il collegio e il seminario furono completati in breve tempo e a capo dei missionari fu posto Robert Parsons, un gesuita che veniva da un piccolo villaggio del sudovest dell’Inghilterra, Nether Stowey, ma grazie all’aiuto del suo parroco aveva potuto studiare a Oxford e conseguire con merito la laurea.

Il seminario fu attivo a Douai fino al 1578, quando la città fu conquistata dai calvinisti, che misero in fuga docenti e discenti, costretti a riparare Reims, dove rimasero quindici anni. Tra i meriti di Parsons e dei seminaristi vi fu il lungo e faticoso lavoro di traduzione in inglese della Vulgata, che prese il nome di Bibbia di Douai[28].

Quando ebbe formato un numero sufficiente di seminaristi, Parsons si pose il problema di come riuscire a tentare l’impresa missionaria, visto che allo sbarco tutti gli stranieri erano controllati e, se solo sospettati di essere cattolici, erano arrestati e condotti in carcere. L’unica possibilità gli sembrò far proteggere i seminaristi da un esercito cattolico in missione speciale, una sorta di “caschi blu” ante litteram, e provò ad avanzare la richiesta ai diplomatici di Spagna e Francia[29]. L’ambasciatore spagnolo ritenne la missione di conversione degli Inglesi una “pazzia criminale” e denunciò Parsons al padre generale dell’ordine, Everard Mercurian, che ammonì il sacerdote a non occuparsi di politica[30].

Ma Parsons non si dava pace e non accettava l’idea che fosse vanificata l’impresa di formare missionari cattolici inglesi per trasmettere nuovamente una fede autentica e non “politica”, per tentare di convertire gli anglicani e, soprattutto, per portare speranza e sacramenti a tutti quei cattolici che, dopo l’abolizione della messa e dei riti sacramentali romani, avevano finito per allontanarsi dalla fede e vivere da non credenti. Non voleva mandare al martirio i suoi giovani allievi, e confidò all’amico Edmund Campion, anche lui gesuita, di voler trovare il modo per tentare da solo. Notarono che si trattava di una situazione simile a quella della vita di Gesù, allorquando doveva tornare a Gerusalemme per compiere la sua missione, ma sapeva che appena giunto sarebbe stato arrestato e condannato a morte.

Campion disse che in ogni caso sarebbe andato con lui. Dovevano trovare un modo per superare i controlli e, prima ancora, la rete di informatori sulla provenienza. Parsons ebbe un’idea, per la quale chiese aiuto a un connazionale dell’esercito che era Douai: si sarebbe travestito da ufficiale inglese, dichiarando di essere di ritorno dalla missione nei Paesi Bassi compiuta dal suo amico. A quel tempo le divise non erano facilmente imitabili e la loro autenticità valeva più di un documento di identità: realizzate dai sarti con modelli militari esclusivi, impiegavano stoffe di una speciale lavorazione inglese con bottoni coniati come monete e, inoltre, con ricami d’oro costosissimi e difficili da riprodurre; infine, il cappello piumato costituiva una sorta di caratterizzazione diacritica che consentiva la distinzione a colpo d’occhio con gli ufficiali di qualsiasi altro paese.

Quando, a sera, Parsons si incontrò con Campion, aveva appena ricevuto il cappello piumato e, dunque, aveva in prestito l’uniforme completa; l’amico era entusiasta per lui, perché – gli diceva – indossare l’abito da ufficiale era come portare scritto “anglicano fedele alla regina”, ma aveva urgenza di risolvere il problema del proprio travestimento, perché un altro ufficiale inglese cattolico e compiacente non lo avrebbero trovato. Parlandone con conoscenti fidati, un mercante viaggiatore di pietre preziose e gioielli assicurò loro che faceva quella rotta normalmente e che non aveva mai avuto noie. Allora Parsons, per ottenere il massimo della verosimiglianza, comprò gli abiti del gioielliere e tutto l’equipaggiamento per il trasporto dei preziosi, così da rendere Campion molto simile al vero mercante nell’aspetto.

Sbarcati, quando giunsero alla verifica, per il portamento marziale di Parsons, dopo un’occhiata all’inconfondibile cappello piumato e ai ricami d’oro della giubba, i funzionari di frontiera non fecero alcun accertamento e lasciarono passare entrambi senza domande[31].

Felici di aver superato questo primo terribile ostacolo, i due amici si diressero al centro della capitale e qui, sfruttando l’effetto della divisa, non ebbero difficoltà ad avere informazioni sui cattolici e, incontrate persone affidabili, rivelarono a queste la propria identità e così “trovarono alloggio segreto nel cuore di Londra”[32].

Robert Parsons ed Edmund Campion da quel momento avviarono un apostolato letteralmente benedetto dal Cielo per la quantità di frutti che portò.

Visitavano in incognito i cattolici carcerati portando loro i sacramenti, sostenendoli e incoraggiandoli nel resistere alla pena rimanendo fedeli; reclutavano laici e sacerdoti per riconvertire gli apostati e coloro che avevano ceduto per paura, facendo sentire la vicinanza del Signore con il loro soccorso materiale e spirituale.

Crearono una stamperia clandestina nella quale stampavano opuscoli pastorali secondo l’insegnamento apostolico romano e realizzarono anche un documento di controinformazione dichiarando i veri contenuti della bolla di scomunica della regina Elisabetta e spiegando che la Chiesa di Roma, con tutti i difetti, i peccati e gli errori degli uomini che vi avevano fatto parte nei secoli, era erede degli Apostoli e, se dopo trecento anni di persecuzioni romane e un millennio e mezzo dalla venuta di Cristo esisteva ancora, sopravvivendo a tutti i regni e gli imperi che si erano succeduti nel mondo, era per la presenza al suo interno dello Spirito Santo, il Paraclito annunciato da Cristo.

Alcuni preti secolari che vivevano in clandestinità in Inghilterra avvertirono Parsons e Campion che la rete di spionaggio della regina li stava sorvegliando, perché alcuni funzionari che li avevano incontrati nutrivano sospetti su di loro; temendo che qualora fossero stati scoperti la persecuzione contro i cattolici si sarebbe inasprita, li scongiurarono di lasciare il paese al più presto.

Ma i due gesuiti decisero di sfidare lo spionaggio. Per non esporre a rischio i sacerdoti che li avevano avvertiti lasciarono Londra, ma solo per cambiare strategia operativa: “Trasferendosi di città in città, tenevano riunioni segrete, ascoltavano le confessioni, celebravano messa e impartivano la benedizione ai fedeli oranti che alzavano verso di loro gli sguardi quasi fossero messaggeri di Dio. In un anno dal loro arrivo fecero – a quanto si affermava – ventimila convertiti”[33].

Ma, intanto, erano stati scoperti e gli agenti segreti avevano trasmesso le informazioni al governo, che a quel punto moltiplicò gli sforzi per catturarli, mettendo in campo l’esercito e scatenando una spietata caccia all’uomo, che terminò in un inseguimento. Nella fuga disperata al porto, Parsons riuscì a raggiungere il molo e di volata saltò su una nave in partenza, che lo portò in salvo dall’altra parte della Manica; Campion, che al momento in cui furono avvertiti per la fuga stava celebrando messa in un rifugio clandestino, non poté lasciare tutto e scappare a gambe levate, così fu raggiunto, arrestato e tradotto in catene alla Torre di Londra.

Elisabetta fu incuriosita da tutta la storia e volle conoscere l’arrestato. Le fu condotto il gesuita nella sala del trono. Edmund Campion era un quarantenne alto, snello, di bell’aspetto, dallo sguardo intenso, con una folta capigliatura pettinata all’italiana, barba corta e curata, baffi lunghi e sottili, fine nei modi e di un acuto ingegno che emergeva subito nella conversazione[34].

Elisabetta non era insensibile al fascino tutto spirituale che emanava quell’uomo, e gli chiese se la riconoscesse come sua sovrana legittima. Edmund rispose di sì. Allora gli chiese se lui, cittadino inglese e suo suddito, riteneva che il Papa potesse legittimamente scomunicarla. A questa domanda il gesuita disse con franchezza: “Non posso risolvere io un problema sul quale i pareri dei dotti in materia di fede e dottrina sono discordi”. Elisabetta non fu soddisfatta, ma non si sentì offesa, e lo rimandò prigioniero alla Torre. A questo punto, bisogna fidarsi delle fonti storiche anglicane sospette di agiografia, come del resto fanno Will e Ariel Durant, perché non si trovano fonti di diversa matrice culturale su questo passaggio. Si legge che la regina diede istruzioni perché Edmund Campion fosse trattato bene, con ogni riguardo, invece “Cecil ordinò che fosse messo alla tortura perché facesse i nomi dei suoi compagni nella cospirazione. Dopo due giorni di tormenti, cedette e disse alcuni nomi; altri arresti seguirono”[35].

Campion spiegò che avevano fatto apostolato nel nome del Signore e non una cospirazione, allora Elisabetta gli chiese di spiegare ai ministri protestanti le sue ragioni. Il gesuita, dopo giorni di digiuno e due giorni di tortura, fu condotto “a una discussione pubblica, che, con il consenso del Consiglio, si tenne nella cappella della Torre, presenti cortigiani, prigionieri e pubblico. Per ore il gesuita, in piedi sulle gambe vacillanti, difese la teologia cattolica”[36].

La sua perorazione gli evitò l’accusa di eresia. Ma si trattò di una beffa, perché fu accusato di aver cospirato per rovesciare il governo dall’interno e chiamare l’invasione dall’estero. Era stato arrestato nel mese di luglio, ma poi lasciato languire nella Torre di Londra per oltre quattro mesi. Fu ucciso in esecuzione di una sentenza falsa e criminale il primo di dicembre 1581, insieme con altri quattordici innocenti. Prima dell’esecuzione, Elisabetta permise che Campion fosse legato a un cavallo e trascinato per le vie della città fino al patibolo, dopo l’impiccagione ordinò che fosse sventrato e squartato.

Nel 1970 Papa Paolo VI ha proclamato Santo Edmondo Campion martire della fede.

 

 

 

 

 

[continua]

 

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-06 novembre 2021

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[1] E sappiamo che questo avviene perché gli atomi di piombo del giallo di cromo spiazzano quelli della biacca, alterando la struttura del composto.

[2] Detto “giallorino” perché tenue, non intenso e vivace come i gialli di cromo contenenti piombo.

[3] John Richard Green, A Short History of the English People, cap VII, part 3, Macmillan Company, New York 1874.

[4] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, p. 183; IV, p. 65; V, p. 228, J. M. Dent & Sons, London 1932.

[5] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, I, op. cit., p. 11. Chi ne deduce che fosse una sincera credente, può porsi nuovamente la domanda al termine della lettura di questi due paragrafi.

[6] Roger Ascham, The Scholemaster, p. 81; cit. in Will e Ariel Durant, L’Apoteosi Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I, op. cit., p. 25.

[7] James Anthony Froude, Reign of Elizabeth, III, p. 4, J. M. Dent & Sons, London 1932.

[8] Hippolyte A. Taine, History of English Literature, p. 160, Frederick Ungar Publishing Co., New York 1965.

[9] Smith, The Age of the Reformation, p. 634, Henry Holt and Company, New York 1920.

[10] M. C. Bradbrook, The School of Night, p. 39, Cambridge University Press, Cambridge 1936.

[11] M. C. Bradbrook, The School of Night, op. cit., p. 12.

[12] Robertson, Freethought, II, p. 10, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 26.

[13] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 26.

[14] La traduzione delle preghiere diviene “una parte nobile e formativa della letteratura nazionale” (Durant, p. 28).

[15] Il suo precettore Roger Ascham era più interessato a renderla edotta delle ragioni dei protestanti, per istillarle i principi della sua confessione, che a un insegnamento pastorale delle Sacre Scritture che l’aiutasse a salvare l’anima.

[16] Will e Ariel Durant, L’Apoteosi Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I, op. cit., p. 12.

[17] Non si trattava semplicemente di una “doppia morale”, ma di una prassi di governo che sarà conservata nei secoli: la regina o un erede al trono dedica una parte importante del proprio tempo a rappresentare con attività sociali, umanitarie e culturali i valori professati dalla casa reale, rendendo pubblica un’immagine di atti concreti. Non è dunque una “propaganda di regime” autocelebrativa, ma un’attività politica con fini di propaganda. Lady Diana, dopo essersi a lungo impegnata in questo compito, lo abbandonò, trovandolo eccessivamente faticoso e stressante. Questo costante lavoro nel Regno Unito, al tempo della Guerra del Golfo, ha conservato le simpatie ai Britannici, alienandole agli Statunitensi, nonostante tutte le decisioni impopolari attuate dai due paesi fossero state concepite a Londra.

[18] Note e Notizie 10-04-21 Specchio della psiche e della civiltà – prima parte.

[19] Ci istruisce sulla storia del concetto nella sua realtà antropologica l’etimo della parola greca symbolon e del verbo greco symballo, “gettare insieme”. Il simbolo (symbolon) era una grande moneta di terracotta che i due contraenti di un patto spaccavano in due, detenendo ciascuno una parte: quando si ritrovavano per concludere l’accordo, verificavano il combaciare delle due metà a garanzia della reciproca titolarità a beneficiare del concordato. Il simbolo è appunto un patto sul significato.

[20] Note e Notizie 10-04-21 Specchio della psiche e della civiltà – prima parte.

[21] Pastor, History of the Popes, op. cit., p. 250.

[22] Cfr. Will e Ariel Durant, L’Apoteosi Inglese, libro I, in L’Avvento della Ragione, Vol. I, op. cit., p. 30.

[23] Nel 1559 John Foxe pubblicò in latino un appassionato commentario protestante, il Rerum in ecclesia gestarum (originariamente in più volumi), che nel 1563 fu tradotto in inglese col titolo Actes and Monuments. I militanti del protestantesimo inglese lo chiamarono The Book of Martyrs, usandolo come testo per prediche volte a fomentare l’odio per i cattolici.

[24] Philip Hughes, The Reformation in England, III, p. 159, Hollis & Carter, London 1950.

[25] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 29.

[26] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., idem.

[27] Philip Hughes, The Reformation in England, III, op. cit., p. 289.

[28] Il completamento di tutto il lavoro di traduzione della Bibbia nella lingua di Shakespeare richiese 28 anni (1582-1610) e quindi la prima edizione a stampa fu pronta solo un anno prima della Bibbia del re Giacomo.

[29] Molti storici riportano che il gesuita aveva sollecitato l’invasione militare dell’Inghilterra, ma la cosa mi è parsa strana, in quanto all’epoca dei fatti Parsons era un semplice sacerdote sconosciuto ai più e privo di qualsiasi potere. Ho letto anche che Parsons avrebbe affermato che la bolla papale che delegittimava Elisabetta ne giustificava l’omicidio. Indagando un po’, ho potuto accertare che tutti questi storici erano protestanti e non avevano fatto altro che riportare la versione denigratoria e le voci fatte circolare ad arte dei loro correligionari dell’epoca. Un solo storico inglese cattolico, ossia il Pastor, ammette questa possibilità, forse influenzato dall’uniformità storiografica. Naturalmente, chi conosceva le vicende biografiche di Parsons e il commovente ed eroico impegno caritativo quotidiano dei cattolici perseguitati che pregavano per i loro aguzzini, non poteva minimamente credere a quelle calunnie.

[30] Joseph McCabe, A Candid History of the Jesuits, p. 148, E. Nash, London 1913. Si può leggere online: sul sito onlinebooks.library.upenn.edu nella trascrizione curata da John Mark Ockerbloom.

[31] Cfr. Will e Ariel Durant, op. cit., p. 31.

[32] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 31.

[33] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 31.

[34] Cfr. Joseph McCabe, A Candid History of the Jesuits, op cit., e per l’aspetto il ritratto a olio di Tyburn del 1581.

[35] Will e Ariel Durant, op. cit., idem.

[36] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 32.